16° bando di concorso SCARPETTA D’ORO

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Maurizio Quarello, Il viaggio di Luna, Edicolors 2005

Scarpetta d’oro è un concorso onesto e molto carino per iniziare a buttarsi nel mondo dell’illustrazione. Gestito da Acrib (Associazione imprenditoriale della calzatura brentana), valorizza le scarpe attraverso l’illustrazione per bambini. Ogni anno vengono coinvolti illustratori e scuole e tutto si concretizza poi in una mostra all’interno di una meravigliosa villa veneta, un catalogo e  un libro illustrato dall’illustratore vincitore (mi ricordo, anni fa, il primo libro di Maurizio Quarello pubblicato grazie a questo concorso, con Edicolors. Oggi non so che editore pubblichi i libri vincitori).
Scarica il pdf del bando

Cosa: Si partecipa con una sola tavola. L’immagine deve rispettare il tema del concorso. Misure massime 40×50 cm.

Tema: “Scarpe su misura”

Scadenza: 31 maggio 2011 (farà fede il timbro postale).

Premio: Al vincitore sarà affidata la realizzazione di un libro, con testo scritto da una scuola a partire dalla sua tavola vincitrice + la somma di 2000 euro, che include la cessione di tutti i diritti d’autore.

Scarica qui il regolamento completo.


DAVIDE CALÌ: SCRIVERE PER BAMBINI. PUNTATA 3

Ecco nuove risposte di Davide Calì alle domande dei lettori di LeFiguredeilibri sulla scrittura per bambini.
Leggi la puntata 1
Leggi la puntata 2

Maddalena Sodo

15 dicembre, 2010

Una domanda forse un po’ banale: è meglio che il protagonista (ad esempio il bambino) parli in prima persona o che si racconti in terza persona? (il famoso e consunto “c’era un volta?). In base alla sua esperienza, cosa in genere fa più presa sul lettore?
Maddalena
Cara Maddalena, non ci sono domande banali. Se una domanda ti viene in mente, vuol dire che ti occorre una risposta. Direi che non esiste un “meglio†tra le due cose. Con la prima persona si ottiene un certo tipo di racconto, con la terza un altro. Di solito direi che negli album illustrati le storie sono raccontate in terza, da una voce narrante. La prima è usata più nella narrativa che prevede forme anche molto tipiche della prima persona, come il diario o il dialogo diretto con il lettore. La prima persona non è esclusa dagli album ma più che per raccontare una vera e propria storia la userei per raccontare un sentimento o un desiderio come io ho fatto, per esempio, in Mi piace il cioccolato o in Moi j’attends.

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Davide Calì e Serge Bloch, Moi, j’attends, Sarbacane 2005

Susanna
15 dicembre, 2010

Non so bene come formulare la domanda, ma vorrei tanto saperne di più sull’uso/la scelta del linguaggio, perché è qui che di solito mi blocco e mi viene fuori ogni tipo di dubbio.
Cioè, una volta che uno ha sviluppato una storia che funziona, com’è che si sceglie la lingua in cui scriverla, intendo proprio dire, come si scelgono le parole giuste, le frasi adatte e la sintassi che le lega?
Detesto quel modo di scrivere in cui la lingua è volutamente tenuta a un livello scandalosamente basso, offensivo per l’intelligenza dei bambini, ma allo stesso tempo ho anche paura di scrivere troppo difficile.
I grandi autori riescono a scrivere “semplice†senza essere semplicistici, c’è qualche modo/consiglio/trucco/esercizio per riuscire ad arrivare a questo?
A proposito, qualcuno mi ha detto una volta (forse è stato Tony Ross ma non sono sicura…) che quando si scrive per i bambini la cosa più importante è essere chiari, ed essere logici. Se si risponde a questi due requisiti, si può parlare di qualsiasi argomento! Sei d’accordo? Quali altre cose pensi siano importanti?

Rispondo cominciando dall’affermazione di Tony Ross, se è sua, con la quale mi trovo d’accordo. Quando ho cominciato a scrivere per bambini mi sono dato in effetti poche regole, che ho cercato sempre di rispettare. Raccontare con chiarezza è la prima: scrivendo con chiarezza si può spiegare qualsiasi cosa, anche difficile. Non esistono trucchi in questo senso, solo l’esercizio e l’autocritica. E ovviamente leggere molto. Le regole che mi sono dato le ho trovate leggendo tanti libri che mi sembravano scritti male. Mi sono detto: io, non voglio fare la stessa cosa.

Per quel che riguarda lo scrivere in modo “semplice†questo non vuol dire ovviamente scrivere in modo “semplicisticoâ€. Sono due concetti diversi. Le mie storie di solito sono abbastanza semplici ma al tempo stesso complesse e piene di cose, di piccoli dettagli, di messaggi nascosti, di sottolivelli di lettura. Ogni volta che mi hanno chiesto di semplificarle per renderle “superficialiâ€, ho preferito abbandonare il progetto.


L’Editore Orecchio Acerbo organizza sorprendenti corsi

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Nel mese di febbraio, la casa editrice Orecchio Acerbo propone due interessantissimi corsi. Se abitassi a Roma o dintorni, andrei al volo!

18-20 febbraio 2011
Come aprire una casa editrice

Il successo di una casa editrice non è legato solo alla qualità del progetto editoriale e dei libri pubblicati. Molti sono gli aspetti che concorrono alla buona riuscita e alla sopravvivenza di una casa editrice: dalla promozione al rapporto con le librerie e con la rete di vendita, dalla distribuzione all’amministrazione, dal rapporto con gli autori fino all’ufficio stampa. Aspetti questi, comuni a tutte le case editrici ma particolarmente delicati se si tratta di libri per ragazzi. Durante il workshop si ragionerà insieme su tutti questi elementi, percorrendone gli aspetti fondamentali. E si cercherà anche insieme di rispondere alla domanda: il bambino va considerato un lettore o un consumatore?

orari: venerdì ore 17-19, sabato e domenica ore 10-18


25-27 febbraio 2011
L’oggetto libro

Il workshop vuole essere l’occasione per soffermarsi sulla funzione della grafica nel libro illustrato. Molti saranno i temi trattati: dalla scrittura tipografica al rapporto fra parola e immagine fino alla parola usata come immagine. Più in generale si discuterà delle immagini e del loro utilizzo in funzione dell’amplificazione dei significati. Insieme si lavorerà sui segni, sui significati e sui percorsi narrativi. Si affronterà inoltre il percorso di un libro illustrato, dalla sua progettazione fino alla sua realizzazione. Il workshop sarà accompagnato da esercitazioni pratiche.

orari: venerdì ore 17-19, sabato e domenica ore 10-18


I workshop durano circa 15 ore, sono tenuti da Fausta Orecchio e Simone Tonucci e si svolgono nel fine settimana a Roma, nella sede di orecchio acerbo, in viale Aurelio Saffi, 54 (Monteverde vecchio). Al termine dei workshop, ai partecipanti sarà rilasciato un attestato di partecipazione.
Per informazioni sui costi e pre-iscrizione cliccate qui o scrivete a segreteria.orecchioacerbo@gmail.com


Intervista alla casa editrice Les Trois Ourses, parte I

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Pubblico in tre parti l’intervista a Elisabeth Lortic, fondatrice ed editrice de Les Trois Ourses. L’intervista fa parte della tesi finale che Marissa Morelli, architetto, ha svolto per il Master in Illustrazione per l’infanzia ed educazione estetica all’Università di Padova ed è una ricchissima testimonianza della storia di uno degli editori più interessanti del panorama francese, nonché una profonda riflessione su cosa significa nutrire i bambini di immagini graficamente “adulte”. Ringrazio Elisabeth Lortic e Marissa Morelli per avermi concesso di pubblicare questo prezioso documento.

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Louise Marie Cumont, Les Chaises, libro di tessuto, Les Trois Ourses, 1997

Parigi, 27 luglio 2010, INTERVISTA A ELISABETH LORTIC, EDITRICE di LES TROIS OURSES, di Marissa Morelli

Libri per bambini fatti da artisti. Da dove nasce il desiderio di questo particolare tipo di stimolazione visiva, legato all’oggetto libro ma anche ad un progetto capace di trasformare  il libro e portarlo fuori dal suo naturale contesto (dentro ad una mostra, ad una esperienza tridimensionale…), progetto che è cosi diverso dal classico libro per bambini che troviamo nelle librerie?
Era una mancanza, in quei tempi, quando abbiamo fondato l’associazione. Da anni ci si occupava di letteratura per l’infanzia, di libri illustrati per bambini, di berceuses (ninnananne), comptines (filastrocche) , ma nessuno si occupava di stimolazione visiva per i bambini, sopratutto per i più piccoli.
Abbiamo voluto far conoscere ad un pubblico più vasto opere di artisti, come è successo alla fiera di Bologna del 1980 , quando abbiamo scoperto i pre-libri di Bruno Munari, dodici libri materici diversi, non illustrati, da toccare e da mettere in bocca. Questo percorso è proseguito con i libri di Katsumi Komagata, per la stessa ragione. Sono libri che hanno un tipo di comunicazione più universale, si eludono i problemi legati alla lingua, si comunica attraverso una stimolazione visiva  pura. Questi libri fanno parte del campo della comunicazione visiva, sono naturalmente adatti ad essere esposti e vissuti in mostra, si prestano ad essere trasformati, ingigantiti, per poterli condividere collettivamente.

Questo mi pare un fattore importante per voi, non essere strutturati solamente attorno al concetto libro, ma avere un tipo di coinvolgimento più ampio, non solo il bambino e il suo libro, ma un’interazione a 360 gradi fra le parti…
Sì, questo è importante, la mostra è innanzitutto un modo per far conoscere il libro, sommato al piacere di comunicare insieme col libro, in un modo nuovo e diverso.

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<h5 style=”font-size: 0.83em;”><span style=”color: #888888;”>Louise Marie Cumont, </span><em><span style=”color: #888888;”>Les Chaises</span></em><span style=”color: #888888;”>, libro di tessuto, Les Trois Ourses, 1997</span></h5>

Il vostro lavoro si occupa anche di recuperare parte di un periodo storico importante per la Francia, gli anni di Père Castor e dei libri prodotti in quel periodo, in particolare sembra esserci una particolare attenzione verso gli autori russi.
È la scelta di far conoscere opere del passato ad un pubblico contemporaneo? Sono passioni, scelte estetiche personali o altro?
Ci piace creare legami, legami fra la parti, legami col passato. È importante mostrare ai bambini che le cose non nascono mai dal nulla, che c’è sempre un precursore, qualcuno che ha già tracciato un percorso in precedenza.

Père Castor è molto conosciuto in Francia ed è molto popolare ancora oggi, dopo ottant’anni. A quei tempi, parliamo degli anni trenta, erano libri poco cari, con grandi tirature, presenti nelle scuole e stampati bene. Père Castor nasce con l’immigrazione russa a Parigi e sull’onda della Nouvelle Education. La maggior parte degli artisti uscivano dalla scuola di Lebedev, artista russo che, invece, rimase in Russia. Gli artisti, dopo la rivoluzione, lavoravano con la volontà di voler trasmettere un messaggio a una popolazione che non leggeva, spesso analfabeta. E’ stata una rivoluzione iconica legata ad una fortissima voglia di comunicare. Le immagini di oggi, spesso si rifanno a quel periodo, un esempio fra tutti è Blexbolex, dove mi pare ovvio il riferimento a Lebedev.

Nathalie Parain, che è molto conosciuta in Francia, ha lavorato sulla scia di Lebedev. Il suo linguaggio iconico è davvero rivoluzionario. Cosi abbiamo scelto di ri-editare il suo primo libro, Mon Chat, che non era mai stato pubblicato in Russia.

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Nathalie Parain, Mon chat, Édition MeMo “La Collection des Trois Ourses”

Il libro di Rodchenko che abbiamo pubblicato recentemente non era mai stato pubblicato prima, è un libro di fotografia, abbiamo cercato di mostrare  che per quell’epoca era una cosa nuova e originale… un libro di fotografia per bambini del 1926! Questo libro, che ha un suo senso anche per i bambini di oggi, fa parte della collana che abbiamo in comune con MeMo, non è una collana soltanto storica, è una collana di libri “attivi†per i bambini. E’ un libro bilingue, studiato anche per i bambini russi. MeMo è molto attenta alla stampa, alla grafica e a tutto il processo di ricostruzione dei libri. Abbiamo potuto lavorare con gli originali di vetro delle fotografie forniteci dal nipote di Rodchenko. Il risultato ottenuto è un libro nuovo, con un impaginato ed una grafica che richiama quegli anni, ma creato oggi.

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Alexandre Rodchenko, Animaux à mimer, Édition MeMo “La Collection des Trois Ourses”, 2010

In generale, come sono nati i vostri ultimi progetti, come quelli di Mauro Bellei, Marc Riboud, e il Bloc Notes di Joachim Jirou-Najou, che sono opere  molto diverse tra loro, che nascono anche da altri ambiti? Chi decide cosa e come pubblicare?
Per noi è iniziato tutto dalla necessità di una boccata d’aria, perché anche se ci piaceva il nostro lavoro, volevamo darci un po’ d’ossigeno, volevamo creare progetti che potessero dare aria, progetti che potessero far respirare.

Siamo un gruppo. Les Trois Ourses funzionano perché sono un gruppo, con al suo interno tante personalità. Da soli avremo fatto cose molto diverse, invece abbiamo puntato sulla condivisione delle idee. Tutti noi avevamo il nostro lavoro e dunque non c’era bisogno di creare una struttura convenzionale, lucrosa.

Dal gruppo viene, ad esempio, l’idea della collana con MeMo. Ci riuniamo tre volte l’anno, in campagna, ospiti di Annie Mirabel, lavorando per tre giorni consecutivi. Ognuno di noi elabora una lista, ognuno si fa portavoce della sua idea o di un suo progetto. Solitamente siamo da dodici a quattordici persone in queste sessioni di lavoro e Annie ci ospita tutti, lavora e cucina anche (risata). A volte sono invece le persone e i progetti a venire da noi. Cerchiamo di capire prima se sono progetti attinenti al nostro mondo. Come ad esempio progetti legati a Munari, che è un pilastro centrale per noi, o collegati al design o a qualcosa che stiamo facendo.

È il caso di Blocs Notes. Eravamo in lizza per spostarci con la sede a Docks en Seine, qualsiasi progetto legato al mondo del design andava benissimo, siamo venuti a conoscenza del progetto di Joachim Jirou-Najou e lo abbiamo pubblicato.

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Joachim Jirou-Najou, Blocs Notes, Les Trois Ourses, 2010

Il libro di Mauro Bellei è nato invece da un incontro casuale. Mauro è venuto per incontrare Katsumi Komagata e mi ha fatto vedere il suo lavoro. Nel tempo è nata un’amicizia, parlando a lungo di Munari e andando insieme a conoscere lo stampatore storico di Munari, Lucini, a Milano. A questo libro seguirà una mostra, al Mambo di Bologna, in occasione di ArteLibro.

La maggior parte delle volte, all’inizio dei progetti, non abbiamo disponibilità economica sufficiente, purtroppo sono venti anni che funziona cosi. Questo ha un effetto sulle decisioni prese e sulle caratteristiche del gruppo. Non esistendo economicamente, diventa una sorta di modo di vita. Ci permette alcune cose, ne esclude delle altre. Siamo più leggeri e  qualche volta più pesanti.

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Mauro Bellei, Les Cailloux de l’Art moderne, Les Trois Ourses, 2010

Ognuno nel gruppo ha le sue manie. Io ne ho parecchie ma ne ho una in particolare che sono i libri di fotografie per bambini. Rimangono parte di un mondo speciale; da bambina avevo dei libri di fotografia che venivano dalla Svizzera, come i libri di Doisneau sui ragazzi di tutto il mondo, mi ricordo di avere amato molto questi libri, li ho conservati tutti. Cosi quando è venuta a trovarmi Catherine, la moglie di Marc Riboud (dopo 10 anni che parlavamo di un eventuale progetto da fare insieme ) ci è venuto spontaneo  farlo. È un libro, un abbecedario di fotografie, che stiamo progettando assieme alla casa editrice Gallimard. Insomma, si tratta di incontri. Se venisse qualcuno a proporci un libro di poesie, lo manderemo a un altro editore o chissà, forse lo faremo noi.

Continua…



Davide Calì: scrivere per bambini. puntata 2

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C’est quoi l’amour?, Davide Calì e Anna Laura Cantone, Sarbacane 2011

Ecco nuove risposte di Davide Calì alle domande dei lettori di LeFiguredeilibri sulla scrittura per bambini.
Leggi la
puntata 1

Domande poste da Ninin il 16 dicembre 2010, via mail

Scrivi di getto?
Dipende. Certe volte sì, una storia che mi è appena venuta in mente, oppure su cui medito da tempo e che finalmente ha trovato la sua forma. Altre volte invece scrivo un pezzettino per volta quando mi viene e lascio che la storia si completi col tempo.
Il finale.  E’ meglio un finale a sorpresa, studiato per divertire anche gli adulti?
In generale negli album il finale è richiesto, il libro deve concludersi. La sorpresa può esserci come no, dipende dal tipo di libro. Più facilmente la trovi nei libri divertenti, ma in qualche modo il finale è quasi sempre sorprendente, anche negli altri. Tentare di divertire o comunque di comunicare con gli adulti attraverso i libri per bambini è una tendenza ormai diffusa. Non saprei dirti se farlo è meglio o no, si tratta di un dettaglio che sta a te scegliere.

Quando scrivi, pensi ai possibili livelli di lettura della storia?
Forse non è corretto dire che ci penso. Scrivo semplicemente su più livelli. Forse certe volte medito sul modo di nasconderne qualcuno, cercando una forma più semplice per dire quello che ho in mente, ma in generale non costruisco le storie su più livelli, diciamo che vengono da sé. Anche se è vero che con gli editori si lavora spessissimo per regolare questi livelli, in modo da rendere più efficace e soprattutto coerente il senso di ciò che la storia racconta.

Prima di scrivere una storia, pensi già a quale editore proporla?
Non saprei, mi pare di no. Ci penso subito dopo. Quando una storia mi viene in mente, di solito, almeno per qualche ora o qualche giorno, è una cosa solo per me. Poi inizio a pensare a come renderla pubblicabile.

Scegli tu il titolo? O l’editore? Quali criteri segui?
I titoli mi vengono semplicemente in mente e li scelgo perché suonano bene. Spesso agli editori non piacciono e me ne propongono di loro, seguendo loro criteri.

Nello sviluppo della storia, quanto spazio lasci alle immagini?
Il mio essere fondamentalmente un fumettista mi ha sempre impedito di scindere lo scrivere un testo dall’immaginarne le illustrazioni, forse è anche per quello che mi sono dedicato ai libri illustrati. Quando scrivo le mie storie di fatto uso due lingue, una verbale e una visiva, perché questo è il mio modo di immaginare le storie. Non saprei dirti se c’è una percentuale fissa di prevalenza di una lingua rispetto all’altra ma nelle mie storie le immagini raccontano sempre qualcosa che il testo non dice. E’ uno dei motivi per cui di solito abbozzo già uno storyboard. Quando non ne ho il tempo riempio il testo di note per spiegare cosa succede nelle immagini. Alle volte sono più lunghe le note della storia!

E’ più difficile scrivere una storia umoristica o una melanconica?
Non so risponderti. Credo che il difficile sia scrivere qualcosa che gli altri percepiscano nel modo in cui tu lo avevi immaginato. Per quel che mi riguarda alterno le due cose perché lo humour e la melanconia fanno parte entrambi del mio carattere. Ultimamente forse ho più difficoltà a rendere commerciali le storie melanconiche perché trattano temi che gli editori considerano troppo adulti. Il difficile consiste quindi nell’alleggerirle senza spogliarle del senso originario.

Prima di iniziare a scrivere, hai già in mente un’idea “forte†e ben definita, o la storia si sviluppa mentre scrivi?
Sì, più o meno posso dire che è così. Certe volte la storia comincia con un’idea forte ma è già diventata una storia completa prima che io arrivi a scriverla.

Pensi a un bambino preciso (età, eventuali abitudini, ecc.), oppure lo stile e l’atmosfera sono quelli richiesti dalla storia, e solo dopo pensi a chi può essere indirizzata?
Non ho bambini e non ho mai pensato a un bambino particolare scrivendo le mie storie. In passato mi ponevo più problemi rispetto all’età dei bambini cui mi rivolgevo. Ora lascio che di questo si occupino gli editori e scrivo liberamente, rispettando sempre le regole che mi sono dato. Se lo ritengono necessario sono poi gli editori a chiedermi modifiche.

Fai leggere la storia che hai appena scritto a dei bambini per osservarne le reazioni?
No. Al massimo mi è capitato di raccontare in anteprima alcune mie storie in qualche classe. Nessuno legge le mie storie prima dell’editore.

Davide Calì


Adventurous flyng of cats, 1976

cover Adventurous flyng of cats, testo e illustrazioni di  Shinta Cho, Fukuinkan Shoten 1976

Philip Giordano, Il nostro inviato speciale dal Giappone (vedi qui), mi ha inviato alcune immagini di: “Adventurous flyng of cats” un curioso libro del 1976  illustrato da Shinta Cho (1927-2005), autore giapponese nominato due volte al premio Ibby H.C. Andersen, famoso in occidente soprattutto per il divertentissimo “The gass we pass“.

Il libro potrebbe essere annoverato tra i libri senza testo, se non fosse per un verso che si ripete identico pagina dopo pagina e che nella traduzione spagnola del libro (Gléant edizioni) fa: “GORO, GORO, MIAU. GORO GORO, MIAU”… VUELA EL AVIONCITO” e che non ho nessuna idea di come faccia in giapponese: importante sapere che è un suono, e mescola il miagolare del gatto al rombo di uno strano aereo a forma di pesce.

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La storia è apparentemente molto semplice: un gruppo di gatti sale su un aereo-pesce, pesca dall’areo alcuni pesciolini, attraversa diversi paesaggi, scappa da fauci, mani e balene che cercano di prenderlo e “atterra” sano e salvo sul mare.

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Where the wild things are, Spike Jonze 2009

Quello che mi piace del libro è che sotto la sua apparente semplicità nasconde un’ossatura simbolica simile a Where the wild thing are di M. Sendak: l’avidità del bambino, se espressa, risveglia immancabilmente oggetti persecutori: se io desidero mangiare (divorare) te, qualcuno poi vorrà mangiare (divorare) me.
Dopo aver inseguito il cane con una forchetta, Max urla alla mamma: Ti mangio! E viene poi inseguito dai mostri selvaggi che lo vogliono mangiare.

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Ma mangiare per il bambino  è anche conoscere/amare, per il fatto che tutto quello che è buono del mondo, all’inizio della sua vita, è entrato dalla bocca (umori di chi lo allatta, soddisfazione del bisogno d’amore, etc…).
Il seno buono (in senso simbolico) può diventare improvvisamente un seno cattivo se fatto oggetto di troppa avidità da parte del bambino (M. Klein) e diventare quindi persecutorio. Anche il desiderio di conoscere, avventurarsi nel mondo, amare, se troppo intenso, può fare la stessa fine. La sottile membrana che separa un’avidità creativa da un’avidità distruttiva è ambigua e sempre pronta a rompersi.

Nel film Where the wild thing are di Spike Jonze questa ambiguità è ancora più esplicita che nel libro di Sendak. Per chi ha visto il film: emblematica la scena in cui il mostro-mamma inghiotte delicatamente Max e lo nasconde al suo interno, per salvarlo dall’ira di un altro mostro che lo vuole mangiare; come a significare: ci sono due modi di mangiare-amare, uno che divora e distrugge, uno che protegge e crea. Quando Max esce da quello strano rifugio, in una sorta di seconda nascita (il bambino era stato “mangiato” dalla mamma ed era nella sua pancia, prima di nascere!) sembra aver introiettato la capacità di dominare la sua avidità, con un lieto fine in cui i mostri (proiezioni dei suoi oggetti persecutori) gli urlano: Oh, non partire…Ti vogliamo mangiare, ti amiamo così tanto! Ed è chiaro che finalmente il mangiare/conoscere è associato a un seno buono, capace di amare e lasciarsi amare.

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Nel libro di Shinta Cho ritroviamo lo stesso gioco:  nella prima scena del libro il pesce (oggetto desiderato dalla fame dei gatti) è un aeroplano (oggetto instabile, ma capace di portare moltissima conoscenza). Cosa significa? Significa che i gatti sono stati capaci di trasformare creativamente l’oggetto del loro desiderio: hanno trasformato il pesce in un aeroplano e ora vogliono usarlo per esplorare il mondo (la stessa cosa deve fare un bambino con la sua avidità).
Ecco che però un bisogno si fa sentire: la fame. C’è una regressione a uno stadio di avidità più primario. I gattini gettano allora dall’aereo-pesce alcune lenze e pescano dei pesci. Nella scena successiva (se si guarda dentro le finestrelle dell’aereo) consumano il loro pasto. Ma improvvisamente, girata la pagina, una balena dalla bocca enorme vuole divorare l’aereo (l’oggetto buono si è trasformato in persecutorio).

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Il libro alterna scene persecutorie e paesaggi affascinanti, in una veloce e vitale avventura sopra il mondo, così simile a quella dell’infanzia. L’avventura si chiude con i gattini che scendono dall’aereo, capaci, come Max, di uscire dalla grande bocca della loro avidità e dire addio all’oggetto tanto desiderato (l’aereo-pesce o gli amici-mostri). L’ambiguità è stata superata, il seno è stato capace di nutrire il bambino fino a renderlo indipendente.
Che si creda o no alle teorie psicanalitiche che ho rudimentalmente utilizzato per questa analisi, che gli autori fossero coscienti o meno di farne uso, io credo che il bambino sappia leggere a un livello istintivo tutti questi affascinanti passaggi.

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