Intervista a Fabian Negrin: La vita intorno.

“Da dove vengono le immagini? Una domanda da un milione di dollari. Non lo so di preciso, ma nel caso arrivassero dalla testa, dalle mani e dall’infanzia, bisognerà sempre tener ben oliate tutte e tre”.
Fabian Negrin

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Fabian Negrin, La vita intorno, Salani 2009

Fabian Negrin è nato in Argentina, a Cordova, nel 1963. Ha studiato grafica e incisione a Città del Messico. Si è trasferito a Milano nel 1989. Oggi lavora come illustratrore per le migliori testate giornalistiche e case editrici, italiane e estere. Tra i numerosissimi riconoscimenti, ha ricevuto la prestigiosa Bib Plaque a Bratislava nel 2009.
Nell’intervista rilasciata a Lefiguredeilibri ci racconta la genesi del suo ultimo libro, La vita intorno, e insieme ci regala preziosissime riflessioni sul rapporto tra testo e immagine, illustrazione e crescita personale, su che cosa è lo stile, la creatività, la determinazione a fare sempre meglio.

INTERVISTA A FABIAN NEGRIN:

Del tuo ultimo libro uscito con Salani, La vita intorno, firmi testo e immagini.
Il testo è un’antologia di miniature narrative che, quasi a tempo di rap, denunciano senza peli sulla lingua il degrado sociale che ci circonda. Ne esce il ritratto di un mondo alla fine dei suoi giorni, invaso da insetti, topi, eserciti, montagne di rifiuti, aerei in fiamme, maschere, scheletri danzanti. Un contemporaneo Trionfo della morte di Brueghel. Come è nata l’idea di un libro così apocalittico?

La maggior parte delle immagini de La vita intorno è apparsa negli anni novanta sull’ultima pagina di Sette – Corriere della Sera. Le immagini illustravano testi di diversi autori, comici per lo più, che a quell’epoca sfornavano una marea di libri, per lo più orribili. E’ stato un lavoro che ho fatto per un paio d’anni nel quale mi si dava completa libertà. Prendevo spunto solo tangenzialmente dai testi, e cercavo di creare un’immagine con un senso compiuto che incendiasse un po’ il significato delle parole, che di solito erano molto sciatte e superficiali. Allo stesso tempo volevo fare in modo non fosse la semplice giustapposizione di un disegno che non c’entrava niente col testo, bensì che si allacciasse ad esso per tentare di portare il tutto verso l’alto.

Ho smesso di farle quando hanno cambiato il direttore di Sette e quello nuovo voleva che riducessi la cornice a due centimetri di spessore. Così diventava impossibile raccontare alcunché, l’immagine sarebbe diventata decorazione. Rinunciai. 500.000 lire nette la settimana. Accidenti, adesso mi farebbero comodo!

Quando ho ripreso in mano questo materiale mi sono accorto che le cornici formavano un insieme molto compatto, nel quale c’erano dei temi ricorrenti, con in mezzo alcuni dei miei disegni migliori. Ho separato i disegni in capitoli, e ho scritto un filo narrativo che li allacciasse come se fossero perle di una collana. Dunque direi che per la maggior parte i temi sono quelli che mi stanno più a cuore: il mangiarsi a vicenda, il fuoco e il fumo, le metamorfosi, il sesso, la morte, gli animali, la giungla, con qualche aggiunta dovuta ai testi che le mie cornici contenevano, quando uscivano sul giornale: la televisione, i rifiuti e poco altro. Ad esempio, l’immagine degli elefanti sopra le colonne accerchiati dai topi, era un testo che parlava della Lega Lombarda che assediava elettoralmente la Democrazia Cristiana. Poi, dentro La vita intorno, i topi non sono di per sé negativi e diventano una metafora delle idee nuove, che per forza di cose portano anche scompiglio e un po’ di rozzezza.

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Fabian Negrin, La vita intorno, Salani 2009

“Ne esce il ritratto di un mondo alla fine dei suoi giorni…”
Il mondo è alla fine dei suoi giorni.

L’immagine resta “ai margini†di uno spazio bianco. Si potrebbe pensare che, come nelle miniature antiche, l’immagine ha ritrovato il suo ruolo decorativo al servizio del testo.
Ma la ricchezza affollata delle tue illustrazioni comunica qualcosa d’altro, confermato dal titolo: La vita intorno. Al centro, c’è il vuoto. Al centro, c’è un lamento solitario. La vita è stata messa ai margini. L’idea è molto forte e bella, ed è una fotografia puntuale della vita di oggi. Non ti è mai venuta voglia, illustrando il libro, di riempire questo spazio bianco? Non pensi che questo centro lasciato vuoto sia anche una grande possibilità?

Essendo state commissionate come cornici – con lo spazio interno in funzione del testo – non potevo riempirle. Solo in qualcuna delle prime cornici ho coperto il vuoto con uno sfondo leggero, ma andando avanti mi son fatto un punto d’onore nel conservarlo bianco, impeccabile. Oggi penso che riempite non avrebbero funzionato allo stesso modo, mettiamo l’immagine dell’uomo che alza mezza montagna per trovare il suo pranzo: se avessi disegnato la parte mancante della montagna l’immagine sarebbe stata pesantissima, forse addirittura l’uomo non sarebbe riuscito ad alzarla… Riguardando i disegni per il libro ho trovato il bianco di una forza magnetica.

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Fabian Negrin, La vita intorno, Salani 2009

L’occhio completa il disegno, aggiunge una tensione e a volte un senso d’incompletezza che per alcune persone può risultare insopportabile. Nel libro, il bianco credo abbia cambiato significato, e potrebbe stare per quella parte della nostra vita che ci ostiniamo a considerare centrale – il lavoro, i soldi, la famiglia – che fissiamo ossessivamente ma che in realtà è vuota, mentre la vita vera si svolge ai margini, visibile solo con la coda dell’occhio. Life is what happens to you when you are busy making other plans è una frase di una canzone di John Lennon che mi stordisce sempre ad un livello quasi fisico. E’ un proclama contraddittorio: mentre dice che non vivi la tua vita fino in fondo, sembra suggerirti che non ha importanza, tanto la vita, a volte pigra, a volte selvaggia, scorre comunque dentro di te. Non vorrei, però, fare il santone che da un’interpretazione che vale per tutti, questo è soltanto quello che il vuoto del libro racconta a me.

Come hai lavorato per creare quel fitto dialogo che si nasconde tra illustrazioni e testo, che è la vera cifra narrativa del libro? Un esempio per tutti: il testo sembra consolare il lettore, dare una finestra d’aria, dicendo: La gente, però, se può fare un bagno al mare, ride. L’illustrazione invece mostra un esercito di uomini-pinocchio = l’unico modo per ridere oggi, è mentirsi. Sapresti raccontare in che modo nasce dentro di te il rapporto tra testo e illustrazioni?
La relazione testo-immagine è stata ottenuta gradualmente. Prima ho scritto dei semplici titoli che creavano un rumore semantico con l’immagine, ad esempio nel disegno di copertina si vede un transatlantico che affonda mentre tutti ballano, e a questo ho dato mentalmente il titolo di OTTIMISMO. E’ un commento fra l’ ‘alla lettera’ e il cinico che produce una frizione fra la parola e l’immagine. Questa modalità viene da un esercizio che Victor Gorka, famoso cartellonista polacco, ci faceva fare a l’università, abbinare un’immagine a una parola per creare un terzo significato. Cosa che ho fatto in altri libri: Guarda come dondolo (Gallucci editore), In bocca al lupo (Orecchio acerbo) e anche in manifesti, riviste e lavori vari fatti insieme a Fausta Orecchio, nella sua veste di grafica. Certo, non è un procedimento che funziona sempre, per tutti i libri. Ultimamente mi sembra che sia diventato un luogo comune dire che le illustrazioni debbano raccontare una storia parallela. Non è detto. Certi testi richiedono di essere seguiti pedissequamente, parola per parola, altri invece vogliono essere traditi. La possibilità maggiore di noi illustratori sta in quello spazio di decisione lì: fedeltà-infedeltà. Certo, se si è fedeli solo al proprio stile si finisce per tradire sistematicamente il testo, e spesso finisce che il libro non funziona.

Fai molti schizzi per cercare le immagini giuste?
I disegni di questo libro hanno degli schizzi molto finiti, che poi ho trasportato sulla carta con la carta copiativa o col tavolo luminoso. Per arrivare a quegli schizzi ho fatto prima tanti bozzetti che mi sono serviti a definire l’ambientazione, la disposizione e le caratteristiche dei personaggi, le diverse letture possibili, le fonti luminose, in modo da far funzionare l’immagine esattamente come volevo. Non è l’unico modo in cui lavoro: ho fatto libri senza nessuno schizzo preparatorio, da alcuni molto realistici (nelle immagini) come Campioni del mondo (Gallucci editore) ad altri più astratti come Capitan Omicidio (Orecchio acerbo).

(Qui di seguito alcuni schizzi di Fabian Negrin per il suo nuovo libro, Mexican Halloween – de La vita intorno non ha conservato i lavori preparatori).

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Fabian Negrin, Mexican Halloween, in corso d’opera. Schizzo preparatorio.
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Fabian Negrin, Mexican Halloween, in corso d’opera.
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Fabian Negrin, Mexican Halloween, in corso d’opera. Schizzo preparatorio.
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Fabian Negrin, Mexican Halloween, in corso d’opera.

Da dove vengono le tue visioni, così ricche e articolate?
Da dove vengono le immagini? Una domanda da un milione di dollari. Non lo so di preciso, ma nel caso arrivassero dalla testa, dalle mani e dall’infanzia, bisognerà tener sempre ben oliate tutte e tre.

L’io narrante sembra stare a galla in questo inferno rifugiandosi in un individualismo esacerbato, nell’alcol, nel suo I pod, in una fuga verso la natura o nel calore di una trattoria…

A volte sembra che Dio si sia preso una serata libera/ e noi qui come dei poveri orfani/a cercare il nostro posto in paradiso./ O all’inferno, s’intende. C’è chi la fa finita subito,/ chi diventa una sirena,/ io invidio chi, attaccato alle piccole cose, resiste.
(Fabian Negrin, La vita intorno, Salani 2009).

La fuga come soluzione, il dare fuoco, il lasciare. Siamo davvero a questo punto? Nonostante il grande respiro bianco al centro della pagina il libro mi ha dato un sentimento di claustrofobia. Anche se su un differente registro narrativo, mi ha ricordato la Vita agra di Luciano Bianciardi. Ci consola, ancora una volta, la bellezza. Il coraggio di tradurre in immagini.
Non la vedrei come claustrofobia, semplicemente non vedo soluzioni collettive in questo momento. In Italia almeno. A Milano sicuramente. Credo che ognuno si debba dare da fare da solo, al massimo in due, per cambiare la propria vita, e questa è l’unica possibilità che abbiamo per cambiare in parte il mondo. Ad esempio, per quel che riguarda gli illustratori, imparando veramente a disegnare. Il punto numero uno del mio Decalogo è questo: impara a disegnare, che dei tuoi disegni nessuno possa dire questo lo riesco a fare anch’ io.

La vita agra è uno dei romanzi italiani che più ho amato, mentre sì, è vero, provo astio per quegli autori che danno l’impressione che alla fine tutto si aggiusti. Non credo che niente si aggiusti da solo, e l’andarsene, lungi dall’essere una fuga, può essere un modo per aprirsi alla bellezza del mondo. Caliamo la metafora in un contesto concreto: prendiamo un giovane illustratore italiano – soprattutto se bravo: non credi che andandosene si farebbe solo del bene?

A differenza di molti illustratori contemporanei, che hanno un loro stile ben riconoscibile, tu ad ogni libro inventi un nuovo universo. Da illustratrice so quanto è difficile buttarsi nel nuovo, tu ogni volta sembri non avere paura di lasciare quello che hai conquistato e ricominciare da zero. La trovo una forma di grande onestà creativa. Ci racconti come nutri il tuo immaginario per cercare lo stile di un nuovo libro? 
In questo libro si trovano decine di rimandi iconografici e letterari: più in generale alla pittura rinascimentale e al suo uso dello spazio, ma anche cose più episodiche come Chagall (pittore che detesto) per un pezzo che originariamente parlava degli ebrei ma ne La vita intorno parla di vertigini e alcool. Oppure citazioni di Monet, Utamaro, le miniature indiane, il realismo sovietico, il film Lezioni di piano, il mito del Minotauro, Cappuccetto rosso, la Bibbia, l’affondamento del Titanic. Non a caso il punto numero due del mio Decalogo personale dice: leggi tutti i libri, guarda tutte le immagini.

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Utamaro Kitagawa, 1753-1806, Bijin Combing Her Hair
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Fabian Negrin, La vita intorno, Salani 2009
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Claude Monet,  La passerella giapponese, 1899

Trovare un mondo visivo che si allacci perfettamente al mondo letterario di un testo a volte è la parte più faticosa del lavoro, ma credo che sia quello che contraddistingue il lavoro di un illustratore e lo differenzia da altri che usano gli stessi strumenti: pittori, imbianchini, che non hanno a che fare con un mondo poetico (il testo) che normalmente precede il nostro fare e col quale ci si deve per forza misurare. Da un’altra parte è vero che c’è un’irrequietezza di fondo, mi annoia terribilmente lavorare sempre allo stesso modo e preferisco cambiare tecniche e riferimenti iconografici, stili, a seconda del testo.
Secondo me, però, prima bisognerebbe chiarire due cose, la prima è che nell’illustrazione spesso si dice che un illustratore ha uno stile quando a volte si tratta solo della riproposizione sistematica di una tecnica. Si usa soltanto il decoupage, oppure si usa soltanto il programma Painter – per poi cambiare ‘stile’, miracolosamente, quando si passa al Corel – oppure si dipinge soltanto su delle fotocopie. Queste sono tecniche, non stili. La seconda è che a volte si spacciano per stile delle carenze strutturali di disegno: non so disegnare veramente un occhio, così faccio due puntini e dico che sono degli occhi. Non so rappresentare lo spazio (e questa carenza sta devastando il mondo dei libri per bambini) così faccio uno stile grafico. Ahimè, in Italia e Francia vedo montagne di libri illustrati da gente che non sa disegnare, o che disegna in modo appena decente.

Diversi sono i veri stili, forme che ricorrono in diverse tecniche, da libro a libro. Questo ha una sua innegabile bellezza, ma, diciamocelo, anche un altissimo grado di noia: dopo il terzo libro con lo stesso stile dello stesso illustratore che riconosco già dall’ingresso della Fiera di Bologna, prima di aprire il libro so esattamente come sarà l’ultima pagina. E’ un po’ come quelli che raccontano la stessa barzelletta tre volte, la prima ridi, la seconda sorridi, la terza ti guardi le scarpe. Ma se si trattasse solo di questo, pazienza, il problema fondamentale è che di solito in illustrazione lo stile si abbina a un registro, così che l’illustratore X ha uno stile (con un solo registro) sempre e comunque buffo-grottesco, mentre invece Z ce l’ha sempre e solo poetico-immaginifico. Io non credo che nella vita noi siamo sempre buffi, o sempre poetici, ma casomai passiamo da uno stato d’animo all’altro, e dunque ci esprimiamo a seconda di come ci sentiamo. Questo esprimersi in diversi registri, credo che sia l’unico modo che abbiamo per abbracciare il testo e farlo veramente nostro, senza stuprarlo col nostro stile onnicomprensivo e ultrapersonale, ma facendo l’amore con le parole e mettendole incinte.

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Fabian Negrin, La vita intorno, Salani 2009

Da quando hai pensato il libro a quando è andato in stampa, quanto tempo è passato? L’editore ti ha lasciato “carta bianca†o è intervenuto nel lavoro?
Da quando ho ripreso in mano le illustrazioni, ho concepito l’idea del libro e gli ho regalato un testo, fino a quando ho trovato un editore che lo ha stampato, sono passati meno di due anni. In mezzo c’è stata la mostra fatta nella sede dell’Associazione Hamelin di Bologna durante la Fiera del libro per ragazzi 2009. Anche se il progetto era già definito, vedere tutte quelle persone in piedi impegnate a guardare i disegni e leggere attentamente il testo mi ha aiutato a capire la potenza che aveva questo libro. L’editore l’ho trovato vicino: la Salani, che è la casa editrice che mi ha offerto d’illustrare il mio primo libro per bambini L’uomo che sapeva contare, nel 1995. Me lo propose la loro editor di allora, Donatella Ziliotto (insieme a Francesca Lazzarato, credo la miglior editor per ragazzi che questo paese abbia avuto; sono loro che hanno fatto pubblicare da noi il meglio della letteratura mondiale). Mariagrazia Mazzitelli e Luigi Spagnol, gli editori, sono ormai degli amici, dunque il processo del fare il libro è stato non tanto di “carta bianca†o di interventismo, quanto di collaborazione, come credo succeda nelle case editrici dove ci sono delle persone sinceramente interessate alla letteratura per l’infanzia (anche se paradossalmente questo direi che è un libro per adulti!).

Perché la scelta della carta lucida? (è l’unica cosa con non mi convince del libro).
Sono stato io a convincere l’editore a usare la patinata. Credo ci siano pochi casi in cui va bene la carta usomano per delle illustrazioni: deve esserci tanto bianco nello sfondo e dei colori piatti, va bene per i libri dell’avanguardia russa degli anni venti, diciamo. Ovviamente la carta patinata non garantisce niente, ci deve essere anche una buona stampa, ma nella carta usomano, ad esempio, il nero non è mai veramente nero e questo fa perdere dettagli, sfumature (e le illustrazioni di La vita intorno si fondano su dettagli e sfumature).  Penso che la usomano appiattisca, renda uniformi i disegni, e renda due diversi illustratori molto più somiglianti fra di loro che se stampati su carta patinata. Non sarà un caso se i libri d’arte sono stampati in patinata. Credo che il suo uso diffuso sia una moda, supportata dalla tendenza generale dell’illustrazione contemporanea a essere piatta, decorativa, superflua, dove quello che si ha da dire è tanto basic che non ci sono mai sfumature da perdere. Odio la carta usomano, se non si era capito…

Cosa provi quando un tuo libro è finito e ce l’hai tra le mani?
L’arrivo di un libro è sempre un brutto momento. E’ meglio non essere nei paraggi quando succede. Impiego giorni ad adattarmi al libro stampato e ad apprezzarlo. Vedo solo i difetti. Anna la vilaine (Editions du Rouergue) ad esempio, ha dei colori MOLTO meno luminosi di come erano i miei files al computer. La grammatura della carta a volte può essere TROPPO sottile. La copertina, che spesso non è tanto di mia competenza quanto dell’editore, molte volte è un VERO disastro. Ma poi, pian piano, la mia mente si sposta verso il libro successivo e penso sempre Ah, quello sì che sarà perfetto!

Fabian Negrin

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I disegni originali de La vita intorno di Fabian Negrin, saranno esposti alla galleria Nuages di Milano dall’11 febbraio al 20 marzo. Successivamente alla galleria Hde di Napoli dal 26 marzo al 20 aprile.

Copyright dell’intervista: Anna Castagnoli, lefiguredeilibri(at)gmail.com


ciao Salinger

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Non è un illustratore, non ha fatto libri per bambini, ma è uno degli scrittori che più ha saputo descrivere il valore dell’infanzia: il potere salvifico dei bambini, la facilità con cui i bambini accedono alla verità. Mi sembrava doveroso rivolgergli un ultimo saluto da questo blog.

J. D. Salinger è uno dei pochissimi scrittori che amo senza riserve, alla follia. Seymour (uno dei protagonisti principali di tutta la saga dei fratelli Glass, il più emblematico) fa parte della mia vita come una persona reale. Il suo suicidio mi tocca come il suicidio di una persona reale. Ogni giorno, ogni giorno, mi sforzo di vedere anch’io, come la piccola Sybil, un pescebanana.
Bello che Salinger abbia scelto per morire il 27 gennaio, giorno della Memoria. Lo saluto davvero commossa.

Vi consiglio con tutto il cuore:
Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione (Einaudi)
Nove racconti (Einaudi)

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” Mamma ha detto che il poppatoio è sulla stufa, – gli ricordai. – Gliel’ho dato poco fa,- rispose Seymour. – Non ha fame -. Si diresse al buio verso lo scaffale e illuminò i ripiani, lentamente, avanti e indietro, con la luce della lampadina. Mi sedetti sul letto. – Santo Cielo, ha dici mesi, -dissi. – Lo so, – rispose Seymour. – le orecchie ce le hanno. Possono ascoltare.
La storia che Seymour lesse a Franny quella notte era un racconto taoista, il suo preferito.”
da Alzate l’architrave, carpentieri e Seymour. Introduzione (Einaudi)

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Per chi legge e scrive in francese, il giornale francese Le monde ha offerto una piattaforma per lasciare la propria testimonianza. La frase che dà il titolo della rubrica è mia: l’idée qu’il était là, au milieu d’un silence et des montagnes, rendait ce monde actuel plus beau. Non è retorica, lo penso davvero.


Kate Greenaway (1846-1901)

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Per rifarci un po’ gli occhi dopo le scenette di Walter Potter, ecco un’artista sua contemporanea: Kate Greenaway.
Kate Greenaway è nata il 17 marzo 1846, a pochi giorni della nascita di Randolph Caldecott e qualche mese dalla nascita di Walter Crane, insieme a questi due grandi illustratori, ha creato i primi libri illustrati pensati esclusivamente per bambini, e anche “un genere”. Ecco qualche cenno di biografia:

Il padre, John Greenaway, era un incisore di legno, e la madre una sarta, proprietaria di un piccolo negozio di moda. Kate Greenaway visse un’infanzia di ristrettezze economiche, ma felice, osservando sulla porta del negozio della madre tutta l’alta società che sfilava davanti a lei in costumi vittoriani.

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Shuttlecocks, Kate Greenaway

Molti dei modelli disegnati dalla madre entreranno nelle sue illustrazioni. Le estati passate nello Nottinghamshire, paese dove la famiglia andava in vacanza, le regaleranno invece l’amore per i giardini, i paesaggi campestri e i fiori. Da bambina non venne scolarizzata. Quando compì 12 anni, vista la sua sensibilità per il disegno, il padre la iscrisse a una scuola d’arte, a Kensington.

Fu il padre colui che più incoraggiò e appoggiò la sua carriera. All’inizio le trovò lavoro come illustratrice presso la Marcus Ward, una società di Londra che produceva biglietti d’auguri, calendari e illustrazioni di libri. Il direttore artistico di questa società era Thomas Crane, fratello di Walter.

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Kate Greenaway nel suo studio, 1895, foto copyright: NYPL, Digital Gallery

Dopo 6 anni con la Marcus Ward, Kate interruppe la collaborazione con loro: non le restituivano mai gli originali.
Il padre la presentò allora a Edmund Evans, famoso stampatore e incisore su legno dell’epoca, già stampatore di Caldecott.  Fu un incontro decisivo per la sua carriera. Evans andò subito in visibilio per i disegni dell’illustratrice, e decise di fare un libro con lei, su rime della stessa Greenaway. Evans non badò a spese: per riprodurre tutte le nuances delle tavole originali, usò ben quattro blocchi di colore: rosso, blu, giallo e rosa color-carne.

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Kate Greenaway, Under the Window, Londra 1878. Guarda il libro completo su: Digital Library of Illuminates books

Il libro venne intitolato Under the Window (1878) ed ebbe un successo inaspettato. La nostalgica ambientazione pastorale pre-industrializzazione, la delicatezza dei costumi, l’immagine di un’infanzia idilliaca, stregarono il pubblico inglese. Il libro andò esaurito in un attimo e  le immagini della Greenaway lanciarono una moda. Vennero riprodotte in ogni dove: su tazze di porcellana, carta da parati, tessuti, pubblicità. Non sempre le riproduzioni venivano effettuate con il permesso dell’illustratrice.

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Kate Greenaway, Under the Window, Londra 1878. Guarda il libro completo su: Digital Library of Illuminates books


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Kate Greenaway, Under the Window, Londra 1878. Guarda il libro completo su: Digital Library of Illuminates books

Dopo il successo di Under the window Il critico d’arte John Ruskin, innamoratosi dei disegni della Greenaway, le scrisse una lettera di elogi, e questo fu l’inizio di una corrispondenza che durò tutta una vita. L’influenza del critico sull’opera di Kate Greenaway (molti dicono negativa) la portò a lasciare a più riprese l’illustrazione, considerata da Ruskin un’arte minore, per dedicarsi a una pittura di quadri ad acquarello che non incontrò mai il favore del pubblico.

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Il suo successo (enorme in Inghilterra e America) si rivelò controproducente: la produzione della Greenaway non riusciva a stare al passo con la richiesta del mercato, e il pubblico si orientò verso imitatori, spesso di mediocre talento. Presto il suo nome smise di essere popolare (mentre il suo stile segnava un’epoca). Kate Greenaway morì di tumore al seno a 55 anni, depressa e convinta che il suo lavoro valesse poco.
Kate Greenaway è invece una delle illustratrici immortali dell’età d’oro dell’illustrazione, e ancora oggi i suoi libri, stampati e ristampati in innumerevoli edizioni, regalano immagini di sogno ai bambini di tutto il mondo.
A suo nome è stata istituita nel 1955 la Kate Greenway Medal.

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Kate Greenaway, The flower dance

Qui di seguito alcuni artisti che hanno influenzato, direttamente o indirettamente, il lavoro di Kate Greenaway. Come nel rococò francese, le sue scene sono ritratti di una vita aristocratica, idilliaca, in una cornice dove l’armonia della natura è protagonista insieme all’uomo. Una grossa influenza sui suoi costumi l’ebbero soprattutto le litografie dell’editore Rudolph Ackermann, che avevano reso popolare in Inghilterra la moda impero.

(Su questo sito potete sfogliare alcuni dei più bei libri di Kate Greenaway).

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Pilgrimage to Cythera di Jean-Antoine Watteau, 1721, Louvre


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Kate Greenaway, il pifferaio di Hamelin

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William Hamilton, (Chelsea, 1751 – Londra, 1801)


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Kate Greenaway, “Ring-a-Ring-a-Rosies,” 1881


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The Sackville Children, John Hoppner 1797


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Kate Greenaway


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Illustrazioni di J. Dugourc (1749-1825), edizioni Rudolph Ackermann; Inghilterra 1822


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The Repository of Arts, Literature, Commerce, Manufactures, Fashion, and Politics, edizioni Rudolf Ackermann 1824


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The Repository of Arts, Literature, Commerce, Manufactures, Fashion, and Politics, edizioni Rudolf Ackermann 1824


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Kate Greenaway. Mother Goose, New York: George Routledge and Sons, 1881.

Lo stile “Greenaway” ha segnato tutto un filone dell’illustrazione moderna. Chi come me è nato negli anni ’70, ricorderà le atmosfere di Kate Greenaway in una verisone derivata, banalizzata e diventata ormai uno zuccherosissimo prodotto di mercato: Holly Hobbie e Sara Kay. Le ricordate? Profumavano persino le gommine per cancellare!

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lefiguredeilibri.HobbieHolly Hobbie, anni 70

Walter Potter: illustrare con la tassidermia

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Walter Potter (1835-1918), The rabbit school, particolare,Historical Victorian Taxidermy

Dopo due post sui bambini, i passeri, gli scriccioli morti, mi sembrava allegro restare in tema e farvi conoscere, se già non lo conoscete, un illustratore inglese di fine ‘800 il cui stile è… diciamo, un pochino insolito: Walter Potter (1835-1918).
So, grazie a gentili lettere ricevute, che molti di voi mi leggono facendo colazione. Se così è, mi auguro che questo post non vi disturbi troppo l’appetito. Spero anche che tra voi non ci siano animalisti troppo convinti. La seconda cosa che mi sono chiesta quando ho scoperto Walter Potter è: ma i gattini li ha fatti fuori lui? Chi vuole continuare ad avermi in simpatia non mi chieda quale è stata la prima cosa che ho pensato, e fermi la sua lettura qui.

La prima cosa che ho pensato guardando le opere di Walter Potter è: Quanto costa una di queste scatole? LA VOGLIO. Per quella sulla morte di Cock Robin, The Original Death and Burial of Cock Robin (già solo il titolo mi manda in visibilio) penso che sarei capace di dilapidare i risparmi di una vita. Sono fortunata, non credo che l’opera sia più in vendita.

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Walter Potter, the Original Death and Burial of Cock Robin, 1855 circa. Crediti: Historical Victorian Taxidermy

Il primo animale che Walter Potter impagliò fu il suo amato canarino (c’è sempre un colpevole), seguì, a soli 19 anni la realizzazione di The Original Death and Burial of Cock Robin, su ispirazione della nota filastrocca; l’opera conta 98 specie diverse di uccelli britannici.

lefiguredeilibri.titolopotterWalter Potter, The Original Death and Burial of Cock Robin, 1885 circa, crediti: Historical Victorian Taxidermy

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Walter Potter, The Original Death and Burial of Cock Robin, 1885 circa, crediti: Historical Victorian Taxidermy

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Walter Potter, The Original Death and Burial of Cock Robin, 1885 circa, crediti: Historical Victorian Taxidermy

In epoca vittorina la tassidermia era molto in voga in Inghilterra, e Potter ebbe in vita un notevole successo. Il suo museo, a Bramber, era  meta di affollatissime visite. Poi il nuovo secolo spazzò via molti fantasmi, la passione vittoriana per gli animali imbalsamati smise di essere alla moda, Potter morì, il muso andò in rovina,  la collezione fu ereditata dalla figlia e una nipote.
A più riprese l’opera di Potter fu messa all’indice e accusata di essere la prova di atti di crudeltà compiuti sugli animali. Per far tacere queste voci la figlia di Potter fece una dichiarazione pubblica in cui affermò che il padre non aveva mai ucciso bestiole per le sue opere, ma le aveva sempre trovate morte (difficile crederle).

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Walter Potter, Squirrels Game of Cards, c. 1870, Historical Victorian Taxidermy

Durante il ‘900 la collezione si spostò in diverse sedi museali inglesi, destando sempre accese polemiche. C’era chi adorava la macabra fantasia di Potter e c’era chi gridava alla scandalo.
L’ultima sede del museo è stata il Jamaica Inn, in Cornovaglia. La collezione di Potter attirava più di 30.000 visitatori l’anno, ma la morte dell’unica guida esperta di tassidermia, alcune difficoltà economiche, hanno costretto il museo a cercare un acquirente; nessuno si è presentato e la collezione è stata messa all’asta.

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Walter Potter, Kittens’ Tea Party,Historical Victorian Taxidermy

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Walter Potter, The frog school. (Una commentatrice ci informa che questa scena non è di Potter ma di François Léopold Perrier).

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Walter Potter, The rabbit school, particolare, Historical Victorian Taxidermy

La collezione di Potter al completo (più di 6.000 animali imbalsamati) è stata messa all’asta dalla casa Bonhams nel 2006 (potete leggere qui la cronaca dell’asta). Tutti pezzi sono stati venduti, la cifra più alta è andata a The Original Death and Burial of Cock Robin: la bellezza di £ 23.500 (c. 27 mila euro). L’acquirente è stato Robert Chinnery, direttore del The Victorian Taxidermy Company.
L’artista Damien Hirst (le cui opere sono di solito animali morti messi in formaldeide) aveva offerto un milione di sterline per comprare la collezione Potter al completo e non frantumarla, ma la casa d’aste ha rifiutato. Una vera tragedia ha commentato l’artista,  e sono d’accordo con lui. Qui  potete leggere l’articolo sul The Guardian dove Hirst denuncia questa vendita sconsiderata.

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Walter Potter, Kitten’s wedding, Historical Victorian Taxidermy

 

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Qui sotto, nel video dei Radiohead compaiono, animate, due opere di Walter Potter.

There There… Radiohead 2003

Il matrimonio dei gatti, una delle sue opere più conosciute, ha tutti i gattini appartenenti allo stesso pool genetico, perché il colore del pelo risultasse uniforme. Si dice che Potter vestisse i suoi animali come fossero state persone vere, non solo per l’effetto scenografico. I gattini, ad esempio, hanno biancheria intima minuziosamente ricamata (biancheria che lo spettatore non può vedere).
Allora, che cosa ne pensate dell’opera di Potter? E’ da brivido, no? Siete tra i fans o tra chi è turbato da questi macabri teatrini?

 

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Walter Potter,Historical Victorian Taxidermy


La vera morte di Cock Robin (la simbologia del pettirosso)

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Death and Burial of Cock Robin, pubblicato da John Harris nel 1819

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Randolph Caldecott, The babes in the wood, Frederick Warne & Co., Londra 1879, particolare

Quello che mi affascina nella ballata The babes in the wood è la comparsa in scena, ancora una volta, del pettirosso (in inglese il pettirosso si chiama robin, robin-redbreast o ruddock). Avevo già parlato in questo post di Cock Robin e della mia passione per la filastrocca Who killed Cock Robin?.

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Se nella filastrocca di Who killed Cock Robin?, il pettirosso viene ucciso da una freccia e seppellito dagli amici (tutta la filastrocca è una descrizione dei riti della sepoltura), nella ballata di The babes in the wood invece, è il pettirosso che si fa carico della sepoltura dei bambini (coprendoli di foglie).

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Who Killed Cock Robin? fu pubblicato nel 1744 nella raccolta Tommy Thumb’s Pretty Song Book, ma la filastrocca non è che la parte finale di una ballata molto più lunga: la versione integrale venne stampata solo nel 1770.
Nei secoli si sono mescolate molte varianti, in quella più conosciuta Cock Robin (il pettirosso) si innamora di Jenny Wren (lo scricciolo). Viene celebrato il loro matrimonio (ampia descrizione del banchetto). Tutti sono felici, bevono e mangiano cose deliziose, ma a rovinare la festa entra in scena il cuculo, che vuole portarsi via Jenny Wren. Il passero allora, con arco e frecce, prende la mira per toglierlo di torno, ma sbaglia il colpo e uccide Cock Robin (anche nella realtà il cuculo ruba i nidi già fatti). In altre varianti una lite tra i due uccellini innamorati precede il matrimonio.

(…)
The concert it was fine;
And every bird tried
Who best should sing for Robin,
And Jenny Wren the bride,

When in came the Cuckoo
And made a great rout;
He caught hold of Jenny,
And pulled her about.

Cock Robin was angry,
And so was the Sparrow,
Who fetched in a hurry
His bow and his arrow.

His aim then he took,
But he took it not right;
His skill was not good,
Or he shot in a fright;

For the cuckoo he missed,
But Cock Robin he killed!—
And all the birds mourned
That his blood was so spilled.

Who killed Cock Robin?
“I,†said the Sparrow,
“With my bow and arrow,â€
I killed Cock Robin.â€
(etc…)
Leggi la versione integrale

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The marriage of Cock Robin and Jenny Wren, J.L. Marks, Londra, c 1800

Il pettirosso e lo scricciolo sono entrambi uccelli venerati nelle mitologia antica. Lo scricciolo era considerato il re degli uccelli nella mitologia greca, e il più furbo tra essi nella mitologia celtica (vedi la storia L’aquila e lo scricciolo).

Ma ora viene il bello. Lo scricciolo si chiama Jenny Wren. Wren day è il nome irlandese della nostra festa di Santo Stefano (26 dicembre), che, insieme a Natale, corrisponde alle antiche feste del solstizio d’inverno. Nell’antica tradizione celtica uno dei riti di questa festa era… l’uccisione dello scricciolo (!). Tradizione rimasta molto a lungo in Irlanda, da cui il nome Wren day.

Scricciolo

Nel suo libro La dea bianca, Robert Graves spiega che nella tradizione celtica, la lotta tra le due parti dell’anno, è rappresentata dalla lotta tra il re-agrifoglio (o vischio), che rappresenta l’anno nascente e il re-quercia, che rappresenta l’anno morente. Al solstizio d’inverno il re-agrifoglio vince sul re-quercia, e viceversa per il solstizio d’estate (vedi The Holly King). Nella tradizione orale, una variante di questa lotta è rappresentata dal pettirosso e lo scricciolo, nascosti tra le foglie dei due rispettivi alberi. Lo scricciolo rappresenta l’anno calante, il pettirosso l’anno nuovo.
Il nostro albero di Natale e la tradizione del vischio sono il retaggio di questi miti, come le cartoline natalizie che associano il vischio all’immagine di un pettirosso.christmas

Ma non è finita qui! Ancora oggi, in alcune zone dell’Irlanda è tradizione celebrare una simbolica caccia allo scricciolo, il 26 dicembre. Durante il Wren Day l’effige di uno scricciolo viene posta su un ramo o un palo, e tutti i bambini del villaggio devono colpirla con bastoni o sassi, fino a farla cadere. Una volta “ucciso” lo scricciolo, i  bambini dovranno bussare alle porte del paese con un rametto di agrifoglio in mano, chiedendo soldi per seppellire lo scricciolo. Ecco la filastrocca che devono cantare:

The wren, the wren, the king of the birds,
On Stephen’s Day was caught in furze;
Up with the kettle and down with the pan,
And give us some money to bury the wren.

Ho trovato anche riferimenti a un rito più antico durante il quale uno scricciolo e un pettirosso venivano messi insieme in una gabbia perché si uccidessero l’un l’altro.

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Cock Robin, Illustrazioni di Barbara Cooney, 1965

Alla luce di queste nuove scoperte, torniamo alla filastrocca di Cock Robin e proviamo a darne un’interpretazione. Ecco che ritroviamo tutti gli elementi: lo scricciolo e il pettirosso, simboli delle due parti dell’anno, il loro matrimonio, simbolo dell’unione mistica tra le due parti (anche nel mito celtico il re-quercia e il re-agrifoglio erano gemelli e uniti simboleggiavano l’anno), la morte di uno dei due uccellini, simbolo della morte dell’anno vecchio.
Il banchetto descritto può essere quello delle feste del solstizio d’inverno (o d’estate). Il cuculo (uccello primaverile) arriva per portar via l’inverno, rappresentato dallo scricciolo. Una delle due parti dell’anno (il pettirosso) viene uccisa e poi sepolta. Grande spazio al rito di sepoltura, che rappresenta il passaggio necessario alla rinascita della primavera.
Non è chiaro perché sia il pettirosso a lasciarci le penne e non lo scricciolo, potrebbe essere che con l’accumularsi dei significati nello scambio orale del racconto, il pettirosso e lo scricciolo siano diventati simboli intercambiabili.

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Una versione della prima parte della filastrocca nella quale Cock Robin e Jenny Wren litigano e vanno davanti a un giudice

Il pettirosso che seppellisce sotto le foglie i due bambini in The Babes in the wood, potrebbe essere ciò che resta della versione arcaica del mito; con The babes in the wood siamo in una cornice simbolica più strutturata, in cui non ci sono più uccelli, ma bambini, il maschile e il femminile, che uniti in un abbraccio (il matrimonio) rappresentano la morte come passaggio necessario verso l’anno nuovo. E’ interessante in questo caso che in alcune versioni della ballata, più tardive, il pettirosso copra di foglie i bambini per proteggerli dal freddo della notte, in un rito in cui il passaggio morte-rinascita si fa più breve e meno angoscioso: sonno-veglia.

Altrettanto interessante è la credenza inglese che sia compito dei pettirossi seppellire i morti restati senza sepoltura nei boschi. Questo ribaltamento dei significanti: pettirosso che muore/pettirosso che si prende cura dei morti – è tipico delle metamorfosi dei miti nel tempo (ed è anche un meccanismo tipico dei sogni). Il pettirosso, antico simbolo dell’anno nuovo, è colui che facilita il passaggio dall’inverno alla rinascita.

A conferma del ruolo del cuculo nella filastrocca ho trovato questo proverbio dell’Italia meridionale: Canta il cuculo sulla quercia nera, ricordati padrone che è primavera. Nella tradizione del centro italia al cuculo si potevano chiedere pronostici sulla propria morte: Coch, bel coch d’abril, quant’ho gia? da muri?? (Bel cuculo di aprile, quanto tempo avro? prima di morire?), recita un proverbio romagnolo.

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Raffaello, Madonna del cardellino, 1506

Nella tradizione cristiana il pettirosso è associato sia alla morte, che alla nascita di Gesù. E’ di origine medioevale (ma me la raccontava ancora mia nonna!) la storia del pettirosso che con grande sforzo sfila una spina dalla corona di Cristo in croce. Una macchia di sangue gli resta sul petto e a partire da quel giorno tutti i pettirossi, in ricordo del suo gesto generoso, avranno il petto rosso. In un’altra versione, nella capanna dove è nato Gesù, un uccellino passa la notte a volare vicino alle braci del fuoco, perché non si spengano. In ricompensa Gesù lascia sul suo petto il segno del fuoco.

Molti i quadri della tradizione cristiana di Madonne con uccellino, dove il bambin Gesù tiene in mano, o al laccio, un cardellino, o un pettirosso o altri uccellini non meglio identificabili. Detesto queste scorciatoie da “mitologia per dilettanti“, ma mi sembra possibile il richiamo agli uccellini dell’antico culto del solstizio d’inverno.

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Vierge du boissons des roses, Martin Schongauer, 1473, particolare

Finalmente ho una chiave di lettura della filastrocca che amavo di più da bambina. La sepoltura di Cock Robin è una sepoltura simbolica, il passero assassino è in realtà innocente come l’inverno che porta via le foglie agli alberi. Devo dirvi la verità, per quanto sia stato elettrizzante scoprire quanto si piantano profonde le unghiette del mio amato pettirosso nella storia della nostra cultura, la filastrocca mi piaceva di più prima, con la sua aura completamente surreale. Ma, come amava ripetere Robert Musil, nostro compito è quello di perdere il sogno e conquistare la realtà. Avanti dunque. Aspetto le vostre interpretazioni!

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The babes in the wood, cronaca di una leggenda

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Randolph Caldecott, The babes in the wood, Frederick Warne & Co., Londra 1879

The babes in the wood è un’antica ballata tradizionale inglese. Ecco la trama: due genitori morenti affidano i loro due bambini alle cure di uno zio. Morti i genitori, lo zio, per rubare l’eredità dei bambini, li fa portare nel bosco da due compari. Uno dei due delinquenti, mosso a pietà all’ultimo momento, non ha il coraggio di abbandonare i bambini, e viene ucciso dall’altro. I due bambini abbandonati muoiono di inedia, uno tra le braccia dell’altro, e vengono coperti di foglie da un pettirosso (in alcune versioni i pettirossi sono due).

La prima versione conosciuta della ballata risale al 1595, quando l’editore Thomas Millington la stampò col titolo The Norfolk Tragedy.
Qui di seguito, potete ammirare alcune tavole di Caldecott, che ha illustrato la ballata nel 1879.
(Sul sito del progetto Gutenberg trovate tutte le tavole e il testo integrale).

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Randolph Caldecott, The babes in the wood, Frederick Warne & Co., Londra 1879

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Randolph Caldecott, The babes in the wood, Frederick Warne & Co., Londra 1879

(…)
He took the children by the hand,
While tears stood in their eye,
And bade them come and go with him,
And look they did not cry:
And two long miles he led them on,
While they for food complain:
“Stay here,” quoth he, “I’ll bring ye bread,
When I come back again.”

These pretty babes, with hand in hand,
Went wandering up and down;
But never more they saw the man
Approaching from the town.
Their pretty lips with blackberries
Were all besmear’d and dyed;
And when they saw the darksome night,
They sat them down and cried.

Thus wandered these two pretty babes,
Till death did end their grief;
In one another’s arms they dyed,
As babes wanting relief.
No burial these pretty babes
Of any man receives,
Till Robin-redbreast painfully
Did cover them with leaves.

(The babes in the wood)

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Randolph Caldecott, The babes in the wood, Frederick Warne & Co., Londra 1879

Non si conosce l’origine della storia, che probabilmente affonda le sue radici in antichissime leggende legate al bosco. Ma se ci addentriamo nella cronaca delle prime versioni stampate della ballata, scopriamo curiose relazioni con la cronaca inglese del ‘500, il teatro e… l’Italia. State a sentire.

Thomas Percy, poeta e antiquario inglese di fine ottocento, che pubblicò una versione di The babes in the wood, identificava l’origine della ballata in una stampa del 1601, dal titolo: Two Lamentable Tragedies, di Rob. Yarington (i bibliofili possono sfogliare qui la prima edizione). In Two Lamentable Tragedies venivano raccontati due fatti di cronaca, quello della morte di Robert Beech, avvenuta per mano di Thomas Merry nel 1594 a Londra, e quello della morte di due bambini abbandonati nel bosco, complice uno zio dei bambini.

Ma data 1599 (quindi è di due anni anteriore alla pubblicazione di Yarington) il dramma, Thomas Merry, or Beech’s Tragedy, scritto dal drammaturgo elisabettiano Henry Chettle. Nel dramma viene raccontata solo una delle due parti di Two Lamentables Tragedies, quella dell’uccisione di Robert Beech.
Da fonti indirette (la registrazione di un pagamento effettuato), si sa che pochi mesi dopo Chettle scrisse anche un dramma intitolato: The Orphan’s tragedy. I due episodi, quello dei bambini abbandonati e quello dell’assassinio di Beech, devono essersi fusi insieme nelle successive versioni della storia.

Ma, cosa curiosa! l’attore William Haughton, che interpretò i due drammi di Chettle, fa riferimento nei suoi diari a The Orphan’s tragedy chiamandola The italian’s tragedy.
Quali segreti scambi intercorrono tra la storia di Nennillo e Nennella (vedi introduzione a Hansel e Gretel) di Gianbattista Basile, stampata nel  1634, The italian’s tragedy e The babes in the wood? Quale antica leggenda (o un fatto di cronaca italiana?) è all’origine di tutte queste versioni di un infanticidio nel bosco? E quali sono le relazioni tra la ballata The babes in the wood, la versione di Hansel e Gretel dei Grimm e quella del Pollicino di Perrault?

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Nennillo e Nennella, illustrazione di Warwick Goble (1862-1943)

Nel 1882, Francis James Child, appoggiandosi al corpo di ballate raccolte e riscritte da Percy pubblica The English and Scottish Popular Ballads, meglio conosciuto come  The Child  Ballad, una raccolta completa, filologicamente attendibile, del corpus delle ballate inglesi, scozzesi e irlandesi. La raccolta, che conteneva The babes in the wood, ebbe un’enorme influenza sul romanticismo inglese.

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Babes in the wood, Mary Ann Criddle (1805-1880)
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The Babes in the wood, William Robert Symonds (1851-1934)

Emily Dickinsons fa riferimento in una lettera alla storia di The babes in the wood, definendola “immortale”. Qui di seguito un frammento di una sua poesia ispirata alla storia:

Fra sentieri si stendeva – fra rovi –
Fra radure e fra boschi –
Spesso banditi ci oltrepassavano
Sulla strada solitaria.

Il lupo veniva a scrutare curioso –
Il Gufo guardava perplesso all’ingiù –
La figura di raso del serpente
Sgusciava via furtivamente,

Le tempeste ci sfioravano le vesti –
I pugnali del lampo dardeggiavano –
Feroce dal Dirupo su di noi
Il famelico Avvoltoio gridava –
(…)

(Emily Dickinsons, traduzione di Giuseppe Ierolli, leggi qui la versione originale)

Nei secoli, la storia di The babes in the wood ha goduto di un immutato successo popolare; innumerevoli le pantomime inglesi, spesso in chiave ironica, gli spettacoli teatrali e le canzoni ispirate alla trama. Il finale tragico è stato sovente mitigato: i bambini venivano salvati o trasportati in cielo. Più tardi, la storia si è mescolata a quella di Robin Hood: in alcune versioni, interviene per salvare i bambini. Forse la fusione delle due storie è avvenuta per uno slittamento metonimico del nome Robin – pettirosso in inglese. In alcune versioni meno drammatiche della ballata, il pettirosso copre di foglie i bambini per proteggerli dal freddo.

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La locandina di una pantomima di The babes in the wood del 1954

Nel 1932 la Walt Disney firma un cortometraggio intitolato The babes in the wood:

Il cortometraggio, diretto da Burton Gillett, trasforma la fiaba in un’accozzaglia di riferimenti in cui entra in scena la casetta di marzapane, una banda di elfi, una strega-befana sulla scopa, le torte in faccia, i veleni capaci di trasformare i bambini in ragni e altre bestie orribili… Un compendio squisitamente kitsch di tutte le ramificazioni che la storia di The babes in the wood ha avuto nei secoli (merita di essere visto per intero! Un vero incubo).
Il lieto fine (se lieto si può chiamare) vedrà la strega trasformarsi in pietra per la gioia dei bambini, dopo essere morta ustionata in un  pentolone di lava bollente.

lefiguredeilibri.MetropolitanjpgThe babes in the wood, Thomas Crawford (ca. 1813-1857), Metropolitan Museum of Art, New York

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