In merito all’articolo di Angela Dal Gobbo: Il picturebook è una galleria d’arte? uscito sul n°80 di Liber, (a proposito del quale Diletta Colombo ha già scritto una importante lettera) mossa dal sentimento che le conclusioni a cui giunge l’autrice sono non solo arbitrarie, ma pericolose per la diffusione di una riflessione errata a proposito delle competenze del picturebook, mi permetto di analizzare e criticare le sue argomentazioni. Invito Angela Dal Gobbo a indicare eventuali incomprensioni e malintesi nella mia interpretazione al suo articolo.
Partendo dalla citazione di Kveta Packovska: “L’albo illustrato è la prima galleria d’arte che un bambino visita†e nell’intento di dimostrare che quando si parla di picturebooks non si può parlare di “arte†in senso stretto, Angela Dal Gobbo spiega che cosa è un pictutrebook: il picturebook è un prodotto sequenziale in cui l’immagine non è autonoma ma vive solo in funzione del testo narrativo, insieme, testo e figure formano un prodotto di tipo superiore (una gestalt).
“Diversamente dall’arte, i picturebooks sono sequenziali, acquistano significato esclusivamente tramite una sequenza di immagini. E’ perciò inutile studiare separatamente le immagini, esse devono essere sempre considerate come un tutto nell’interazione con le paroleâ€.
“ Si può asserire che le illustrazioni del picturebook formano un tutto unitario con le parole e non ha senso analizzarle separatamente. Si può anche aggiungere che non è scopo di tale genere di libri avvicinare i bambini all’arte, o predisporli a una fruizione estetica; il suo fine vero sta nel raccontare una storia con l’impiego di due diversi codici comunicativi.â€
Se c’è stato un passaggio logico, l’ho perso, anche leggendo per intero l’articolo, non è chiaro.
Siccome il picturebook è narrazione sequenziale, il suo fine è narrare e non educare all’arte. (?)
Un manifesto simile è stato impugnato dalle egemonie religiose (cattoliche e non), nel medioevo: scopo dell’artista era quello di illustrare le storie dei Libri Sacri, e non di “fare arteâ€. Manifesto che ha influenzato in maniera decisiva l’arte (appunto) bizantina, araba, cristiana per molti secoli, limitando l’espressione pittorica a “codici†narrativi precisi: quali l’assenza di chiaro scuro, la sobrietà delle linee, etc. Come Gombrich descrive così bene nella sua bellissima STORIA DELL’ARTE: la libertà di espressione dell’arte è stata una conquista strappata alla paura della potenza delle immagini, così viva in ogni epoca storica (odierna inclusa).
Però mi conceda l’autrice dell’articolo: possiamo parlare di arte guardando un Cristo bizantino o dobbiamo solo inginocchiarci? I manoscritti arabi ed ebraici, dove alla figura vietata veniva sostituito un “disegno di lettereâ€, non sono catalogabili nella storia dell’arte? Guardando una tomba egizia, dove la vita del defunto era ILLUSTRATA passo passo, dove i disegni si tessevano in una trama complessa con i geroglifici, possiamo parlare di arte o dobbiamo solo sperare che qualche egittologo ci traduca quante volte Ramses II si è unito in amoroso abbraccio a Nefertari? Possiamo parlare di arte nelle immagini illuminate dei testi medioevali? Nel magnifico libro d’ore del conte Berry? Davanti alla narrazione della vita di Gesù attraversata dal sole nelle stupefacenti vetrate di Chartres?
Anche se dovessimo -per ragione del fatto che la diatriba su cosa è o non è arte non era ancora ben delineata in quell’epoca,- limitarci a dire che le vetrate di Chartres narravano agli analfabeti le storie dell’antico e nuovo testamento e non avevano nessuna pretesa artistica, possiamo negarne il valore di opere d’arte? Possiamo risolutamente asserire che chi le guardava non veniva contagiato dalla loro bellezza? Possiamo dubitare che contadini e bambini non ne afferrassero la grazia? Non sarebbe più corretto, al di là di ogni filosofia dell’arte, dire che era proprio la bellezza e la grazia di quelle vetrate a inculcare nel fedele l’ammirazione per la storia sacra e la sua narrazione? Lo stesso discorso vale per le miniature dei manoscrittilatini.
Altro rischio nel prendersi troppa cura delle immagini (di pensarle troppo? Di farle troppo belle?) è quello del proliferare di album in cui le immagini prendono un posto prioritario, autonomo rispetto al testo, in una pericolosa sequenza priva di fondamenti narrativi “sensatiâ€, o alla proliferazione di album “artistici†che non hanno coerenza narrativa interna, o che non si rifanno al mondo conosciuto dal bambino.
(Mi chiedo se qui l’autrice si riferisce anche agli Imagiers, album che propongono -i primi esemplari datano secoli- una raccolta casuale di immagini, al solo scopo di elencare la meraviglia, album a cui si è spesso ispirata una casa editrice come Le Rouergue, che è tra quelle messe all’indice dall’articolo. E mi chiedo quali pericoli si possano mai insinuare per il bambino nelle pagine di un Imagier).
Angela Dal Gobbo asserisce che scopo di questi album “diversiâ€non è quello di educare all’arte, ma educare a vedere e percepire, a cogliere con meraviglia e stupore l’aspetto fisico del mondo. (…) Alimentare la curiosità , suscitare lo stupore (…).â€
“in un primo momento, tuttavia, i bambini non sembrano dimostrare un interesse specifico per il “bello†inteso in senso autonomo, svincolato cioè dall’esperienza, dall’esplorazione concreta dell’intorno, separato dalla narrazione- strumento principale, quest’ultima, per rielaborare in senso cognitivo e affettivo l’esperienza stessaâ€.
Mi piacerebbe invitare Angela Dal Gobbo a spiegarci meglio su che basi scientifiche, o in mancanza di queste attraverso quali vissuti è arrivata ad affermare con tanta risolutezza che il bambino non ha un interesse specifico per il “bello†svincolato dalla narrazione. Sorvoliamo sulla difficoltà etimologica e semantica di “bello†e andiamo al sodo: stiamo dicendo che un bambino sotto i 5 anni non può capire l’equilibrio, la grazia, l’armonia presenti nel mondo di un’immagine con un sentimento estetico simile a quello di un adulto?
Si dice che egli non abbia, sotto i cinque anni, le competenze iconografiche necessarie a interpretare certi difficili album.
Sarebbe carino pubblicare il racconto (commovente) di come Komagata abbia costruito i suoi album spinto unicamente dal bisogno di comunicare con sua figlia neonata, e come abbia pensato immagini e ritmo proprio sulla base di questa relazione silenziosa fatta di attenzione e sguardi che si andava tessendo.
Nel gruppo dei libri “non adatti ai bambini†ci sono quelli di case editrici come Orecchio Acerbo, Editions du Rouergue, Être… passano invece la dogana (a pelo) quelli riconosciuti dalla critica universale, si cita Munari, Komagata, l’ABC della Bataille, etc…:
Se diamo un apparecchio acustico ad un sordastro, e gli facciamo ascoltare una fuga di Bach, il valore della sua esperienza estetica sarà svalutato? Il paragone è fuorviante: qui non parliamo di un lieve difetto dell’udito. Parliamo di un deficit congenito all’infanzia: quello di poter capire “il bello†come esperienza estetica fine a se stessa. Forse continuando nella metafora, si potrebbe dire che i bambini capiscono Munari e Komagata come un cieco potrebbe capire la Nike di Samotracia, palpandone le superfici.
E anche se così fosse, non è sempre alla bellezza che accede? Secondo l’autrice, nel caso del bambino sotto i cinque anni questa palpazione della bellezza è esclusivamente finalizzata all’atto del conoscere, dell’esplorare, del meravigliarsi.
Bene, ma non è esattamente questo quello che tutti gli adulti fanno davanti all’Arte? Esplorare il senso soggiacente all’opera, palparne i significati profondi, meravigliarsi? Non è nell’atto di esplorare la vita e i suoi significati molteplici, come il bambino esplora il suo mondo in miniatura, che inciampiamo nella necessità dell’Arte? Cosa è se non esplorazione profonda del senso l’emozione che ci coglie davanti alla luce di una candela di Georges de la Tour? E non è forse, come il bambino, attraverso i sensi e la nostra limitatezza che accediamo a queste ESPERIENZE emotive così preziose? E non è grazie ad un’educazione estetica, alla mediazione di adulti più preparati di noi, che possiamo più o meno goderne?
Salto alcuni passaggi del testo per giungere alle sue strane conclusioni: Il bello in un album deve essere accessorio. Fondamentale è invece la sua coerenza narrativa profonda, la sua capacità di adattarsi ai limitati strumenti estetici del bambino:
“A nostro avviso è perciò inutile, più che controproducente, proporre libri che presentino una ricerca formale troppo lontana dal concreto, dal vissuto del bambino. Si tratterebbe di una operazione che si fonda più sul compiacimento visivo che non sulla considerazione delle capacità e delle attitudini di un pubblico infantile. Ci sentiamo di sostenere che almeno fino ai 5 anni di età non sia opportuno che i libri non contengano riferimenti visivi troppo complessi, difficili da decodificare, inutilmente sofisticati, che presuppongono un forte bagaglio di elementi iconici.â€
Forse se all’autrice fossero state concesse più pagine si sarebbe potuto capire meglio su che basi abbia avanzato asserzioni personali così severe, poco adatte, mi sembra, alla ricchezza intrinseca dell’infanzia e alla sua varietà , col rischio di impoverire le biblioteche di adulti e bambini. Spero che possa in questa occasione o altre spiegarci con maggiore chiarezza la sua posizione.
Io penso che un picturebook -o album che sia (è indifferente), quando nasce dalla creatività , dalla cultura e dall’intelligenza dei suoi creatori, sia semplicemente un prodotto artistico che risponde ai bisogni e ai codici dell’arte. Se sia o no adatto a un bambino dipende da cosa rispondiamo alla domanda: i bambini possono fruire dell’arte e dell’esperienza estetica? Per rispondere mi limito a ricordare un bambino di 4 anni in un museo di arte moderna, in braccio alla mamma contemplava con la stessa curiosa attenzione quadri di Picasso e Matisse, rideva, allungava le manine verso la pioggia di colori di Calder, lasciato libero sgambettava in direzione di una scultura di Giacometti e si fermava a contemplarla in attento e composto sentire, poi, alzate le braccia al cielo, la imitava divertito. Di rado ho visto adulti capire con più profondità e istinto che cosa è l’Arte.
Anna Castagnoli
Libro illeggibile 66, Galleria dell’Obelisco, Roma, 1966Bruno Munari
L’occasione per mettere in luce questo argomento è nata dalla lettura dell’articolo di Angela Dal Gobbo su “Il picture book è una galleria d’arte?” (pp 50-53), uscito sul n°80 di Liber, in cui si affronta proprio il tema dell’illustrazione nei picturebooks che mi sta a cuore e che continuo ad approfondire.
L’articolo della Dal Gobbo si concentra su due premesse teoriche fondamentali: la natura dei picturebooks si fonda sul rapporto inscindibile tra testo e figure e il loro obiettivo non è educare all’arte, quanto piuttosto “alimentare la curiosità , suscitare lo stupore è il grande compito di questi libri; rappresenta il primo passo verso una sensibilizzazione al visivo che potrà portare, successivamente a nutrire interesse anche nei confronti dell’arte. I bambini non sembrano mostrare un interesse specifico per il bello in senso autonomo, svincolato cioè dall’esperienza, dall’esplorazione concreta dell’intorno, separato dalla narrazione – strumento principe, quest’ultima, per rielaborare in senso cognitivo e affettivo l’esperienza stessa” (p. 51).
L’articolo pone inoltre il problema della “leggibilità †dei libri belli e complessi, prendendo le distanze da quelle case editrici che presentano “una ricerca formale troppo lontana dal concreto, dal vissuto del bambino. Si tratta di una operazione che si fonda più sul compiacimento visivo che non sulla considerazione delle capacità e delle attitudini di un pubblico infantile. Ci sentiamo di sostenere che fino a cinque anni di età sia opportuno che i libri non contengano riferimenti visivi troppo complessi, difficili da decodificare, inutilmente sofisticati, che presuppongono un forte bagaglio di elementi iconici†(p.52).
Come libraia, studiosa e semplicemente come donna sensibile, ritengo indispensabile alzare il livello generale della riflessione sugli albi illustrati (molto più avanti negli altri paesi europei) per recuperare il senso e il piacere della bellezza e della complessità . Credo che sarebbe utile a tutti (adulti e bambini, scrittori, illustratori, grafici, editori, riviste, librai, bibliotecari, ricercatori, insegnanti) conoscere e promuovere l’infinità varietà dei libri illustrati come una risorsa culturale, educativa e anche economica.
Grazie per il tempo dedicato a queste parole, Diletta Colombo
Inaugura a Torino, nella sede del bellissimo palazzo Barolo, una mostra dedicata ai libri per l’infanzia delle generazioni passate: Tofano e Chiostri, l’arte di illustrare l’infanzia. Quando? Fino a quando? Ci vogliono doti di divinazione per saperlo.
Filiberto Mateldi, Copertina per Olka, figlio di Dio. Romanzo della Terra del Fuoco di Giuseppe Fanciulli (1935). Carboncino su carta.
Dopo ardua e sudata ricerca sono riuscita a interpretare sull’articolo di Repubblica una probabile data di inaugurazione della mostra: mercoledì 10 dicembre? Non è chiaro però se mercoledì 10 ci sia stata l’inaugurazione della prima ala del Museo della scuola e del libro per l’infanzia che ospiterà una collezione permanente di classici per l’infanzia del ‘900 e diversi oggetti/riproduzioni delle antiche classi italiane, o l’inaugurazione della mostra Tofano e Chiostri, l’arte di illustrare l’infanzia, o di entrambi gli eventi; sul sito ufficiale di Palazzo Barolo gli indizi sono ancora più scarsi. La data di chiusura della mostra introvabile. Gli orari? Non scherziamo. Non ci interessano! Ci piace pensare di poter vistare la mostra alle due della notte, come Botteghe color cannella aperte a tutte le ore.
Pietro Bernardini, Copertina per Il pavone della casa blu ed altre storie impossibili di Corrado Tumiati (1940). Tempere su cartoncino.
Una cosa che ho imparato dall’articolo (almeno), è che la Fondazione Tancredi di Barolo possiede in Italia uno dei fondi storici più cospicui del patrimonio “libresco” della letteratura per ragazzi, che si traduce in 6500 volumi di edizioni italiane e straniere dalla fine del Settecento alla metà del Novecento, illustrazioni originali, documenti, giochi e materiale didattico. Tra i suoi tesori 1200 originali dei maggiori illustratori del primo Novecento (tra gli altri: Antonio Rubino, Mussino, i grandi illustratori dei romanzi di Salgari) e circa 300 libri animati della seconda metà dell’Ottocento.
Sergio Tofano, Illustrazione interna per Il castello delle carte: novelline bizzarre di Giuseppe Fanciulli (1930). China e acquerelli su cartone.
Vi invito a indagare sul giallo e scoprire le date della mostra, io non ho particolare inclinazione per il genere, soprattutto quando, a proporlo, è un articolo di giornale che si supporrebbe preposto a fornirne la soluzione.
Sergio Tofano, Illustrazione interna per Il castello delle carte: novelline bizzarre di Giuseppe Fanciulli (1930). China e acquerelli con tocchi di tempera bianca su cartone.
AGGIORNAMENTI GIALLO:
La mostra si intitola: Serenant et illuminant. I grandi libri illustrati per l’infanzia della SEI (1908 – 2008). Ha inaugurato il 10 dicembre alle ore 16.30 a Palazzo Barolo, Torino (via delle Orfane 7). Aperta fino al 26 aprile.     (chiusa: 25, 26, 31 dicembre e 1, 6 gennaio 2009) Per informazioni: info(at)fondazionetancredidibarolo.it
Capucine è una bambina con una fantasia esuberante. Inventa storie. L’originalità di queste storie, la loro particolare costruzione sintattica, gli accenti retorici tipici del racconto orale degli adulti, hanno spinto i suoi genitori a riprenderla mentre racconta, e pubblicare online i suoi video. Scelta più o meno discutibile (se io avessi una bambina non me la sentirei), questa testimonianza sui processi mentali di una bambina nella costruzione di una storia mi sembra un documento preziosissimo. Se Rodari fosse vivo ci scriverebbe sicuramente sopra una seconda grammatica della fantasia.
Prendetevi il tempo di ascoltarla con attenzione (Più sotto vi ho tradotto alcuni brani).
E poi il leone se lo è meritato: non aveva più poteri. E così il potere è passato all’ippopotamo, e l’ippopotamo… era allergico alla magia! Così l’ippopotamo, il leone e la tigre, hanno avuto delle bolle, avevano la varicella. E poi la varicella è andata ad un altro animale che era mooolto cattivo, ed era un… mammut. Mammut aveva delle unghie, dei poteri per le persone che sono morte nel cielo, anche gli animali.
Non è meravigliosa?
La famiglia di Capucine ha utilizzato la popolarità del video (che ha fatto il giro del mondo) per contribuire a un progetto di solidarietà in Mongolia: http://edurelief.org/. Leggi l’articolo della mamma di Capucine.