Il plagio, parte II
22 Ottobre, 2009Torna alla prima parte dell’articolo…
E’ di Esopo, poi ripresa da Fedro, la favola della cornacchia e del pavone. Una cornacchia ruba delle piume di pavone e si adorna con esse per essere accolta tra i pavoni. I pavoni, scoperto il gioco, le strappano le piume a beccate. Umiliata la cornacchia torna dai suoi simili, ma questi la sberleffano e l’allontanano dicendole: “Se ti fossi accontentato di stare con noi e avessi sopportato ciò che la Natura ti aveva dato, né avresti subito questo affronto né proveresti la disgrazia di questo allontanamento”.
André Hellé, Le Geai Pare des Plumes du Paon (The Jackdaw and the Peacocks), Berger-Levrault, 1922
Molti secoli dopo, Jean de La Fontaine riscrive la favola e appone una chiosa:
Il est assez de geais à deux pieds comme lui,
Qui se parent souvent des dépouilles d’autrui,
Et que l’on nomme plagiaires.
Je m’en tais ; et ne veux leur causer nul ennui :
Ce ne sont pas là mes affaires.
(Oh quante son le Gazze come questa al mondo che le altrui penne si vestono, che de’ plagiari formano la casta! Potrei scaldarmi contro lor la testa, ma ciò che ho detto basta).
Kano Tomo-nobou, Le Geai Pare des Plumes du Paon, Parigi, Stamperia di Tsoukidji-Tokio, 1894
Ma vediamo quanta strada ha fatto il termine plagio prima di vestirsi di piume di pavone.
In greco plaghios vuol dire traverso, ambiguo, sghembo (nel senso di sotterfugio). Nel diritto romano plagium indicava il delitto di colui che comprava o vendeva come schiavo una persona che sapeva invece essere libera. Plagiarius era il venditore o il compratore, quando effettuava il commercio consapevole della sua frode. Il primo riferimento al termine plagio inteso in senso moderno lo abbiamo con il poeta Marziale, nel primo secolo d.c:
Veglia, o Quinziano, sui miei versi;
se miei posso ancora chiamarli,
quelli che recita il tuo poeta:
se si dolgono della loro servitù,
fatti avanti a difenderli e a pagarne il riscatto,
e, qualora colui se ne proclami padrone,
tu dì che sono miei, e da me fatti liberti.
Se quello insiste una terza, una quarta volta a gridarlo,
svergognalo, allora, questo plagiario.
La parola plagiarius passa quindi dal campo della compravendita di schiavi a quello dell’arte, conservando però il suo senso originario. Marziale sembra indicare che l’autore ha creato l’opera per darle la libertà, mentre il plagiario, approppiandosene, la ha indebitamente assoggetta a sé, rendendola schiava.
Nella Roma antica, un liberto era uno schiavo affrancato, ma che conservava verso il padrone un dovere di rispetto e di tributi economici.
Parodiando Marziale si può affermare che un’opera può girare liberamente per le strade della cultura come un cittadino libero, appartenere al mondo, solo a patto che le venga riconosciuto il suo valore di soggetto libero, che continui cioè ad appartenere a tutti e a nessuno.
Implicito in questa libertà, (come una forma di eleganza o buon costume) è che l’opera continui ad avere un rapporto di rispettoso tributo (economico e/o affettivo) verso chi l’ha liberata, il suo autore, e questo rispetto deve essere condiviso dalla collettività. I fruitori dell’opera devono poter individuare in essa il magnanimo gesto del suo autore, la generosità di affrancarla da sé, di liberarla e donarla al mondo. La fama di un autore è infatti il riconoscimento sociale del suo dono, una sorta di “grazie” che i fruitori restituiscono all’autore.
Il plagiario si appropria di quel grazie in modo illecito, ingannando il fruitore e non dando niente di suo. Quello che lo motiva è l’invidia verso il successo dell’opera o l’interesse economico derivato. (Vuole vestirsi come il pavone, ma se il pavone è bello naturalmente, il plagiario invece, smascherato, fa una figura ridicola).
“se si dolgono della loro servitù,
fatti avanti a difenderli e a pagarne il riscatto”
Marziale non si lamenta per sé, per il suo orgoglio ferito, soffre per i versi stessi, per la loro libertà perduta. Trovo seducente questo connubio tra libertà e valore di un’opera.
Marcel Duchamp, La fontana, 1917
Duemila anni di storia dell’arte permettono a Marcel Duchamp di ribaltare completamente, in modo provocatorio, il concetto di plagio. L’artista è colui che pone una firma, che dichiara: questo oggetto che prima apparteneva al patrimonio collettivo ora è mio solo perché l’ho deciso, anzi, qualsiasi oggetto, anche il più brutto, se ha la mia firma, è arte (vedi Ready-made). L’artista dunque diventa il plagiario per eccellenza.
L’idea esaltata di autore del romanticismo, che come abbiamo visto nel post precedente, apre la strada alla nascita del copyright, arriva al paradosso. L’autarchia dell’artista è totale, egli può appropriarsi di qualsiasi cosa e farla sua, tanto che persino la Gioconda, con un piccolo ritocco, smette di essere la Gioconda di Leonardo e diventa la Gioconda di Duchamp.
Marcel Duchamp, L.H.O.O.Q, 1919
Non credo che verrebbe in mente a nessuno di accusare di plagio Duchamp per la sua Gioconda rubata, perché?
Perché non è la qualità o la quantità di oggetto rubato che misura il plagio, ma l’intenzione che sta dietro l’atto. Duchamp non vuole rubare la fama a Leonardo, spacciando per sua la Gioconda, vuole imporre un nuovo sentimento dell’arte, s-borghesizzarla. E’ esattamente in questa sottile differenza che si muove l’idea di “proprietà intellettuale”. Duchamp crea un’idea, e per farlo ruba a Leonardo la Gioconda. Ma la sua idea è di nuovo un oggetto libero. Non l’ha rubata per un interesse personale, l’ha rubata per metterla di nuovo in circolo re-inventata.
Invece Duchamp avrebbe potuto essere tranquillamente denunciato di plagio da Sapeck (Eugène Bataille), per avergli rubato l’idea della sua Gioconda che fuma la pipa, se il meno fortunato Sapeck non fosse morto in un ospedale psichiatrico ben 28 anni prima della creazione della Giconda coi baffi di Duchamp, solo e presto dimenticato.
Eugène Bataille (Sapeck), Monna Lisa fumant la pipe, esposta alla mostra delle Arts Incohérents nell’ottobre del 1883, Parigi, Gallerie Vivienne
Ma, ahimè, quasi mai la storia dell’arte è un sentiero pulito.