Intervista a Orecchio Acerbo: identità di un editore
13 Febbraio, 2011Intervista a Fausta Orecchio, editrice di orecchio acerbo, di Anna Castagnoli
.
Giulio Levi e Luigi Raffaelli, Venditempo, orecchio acerbo 2010
Perché editori e perché editori per bambini.
Noi siamo grafici, molto prima -e probabilmente meglio- che editori. Abbiamo deciso di dar vita alla casa editrice perché da qualche anno non riuscivamo più a fare “buona graficaâ€. Nelle case editrici per cui lavoravamo allora (parlo del 2001), già da qualche tempo avanzavano a passi da gigante gli uffici marketing. Le scelte erano sempre più squilibrate su un presunto criterio di vendibilità piuttosto che sulla qualità . E poi era da tempo che ci sarebbe piaciuto affrontare, come grafici, il libro illustrato. Allora, in Italia, di picture book non c’era traccia. E così, nel ’99, quando lo studio grafico ha preso il nome di “orecchio acerbo†–nome decisamente profetico– abbiamo messo nello statuto la possibilità di pubblicare libri. Il primo libro è stato pubblicato dopo circa due anni, quasi per caso. In occasione di “uno + uno fa unoâ€, una mostra dedicata ai lavori fatti insieme con Fabian Negrin, abbiamo deciso di pubblicare un libro prodotto da noi: “Il Gigante Gampibiomboâ€. Era il 6 dicembre 2001 quando uscì quel libro e fu diffuso in pochissime librerie, quelle che con un lavoro davvero faticoso, eravamo riusciti a contattare. Non avevamo le idee chiare sul futuro, ma fin dal primo momento ci rendemmo conto che cominciava una storia molto seria, che avrebbe cambiato non poco le nostre vite. Quello che vedevamo nei libri per ragazzi era sconfortante: buoni testi accostati a pessime illustrazioni, bravi illustratori costretti a lavorare su testi banali o ad andare via dall’Italia. E la grafica? Se si sentiva, il più delle volte era per i danni che faceva.
In sintesi: volevamo far bene il nostro lavoro, amavamo i libri illustrati e quello che c’era in Italia non ci piaceva. Siamo stati molto ostinati nel non ascoltare alcun consiglio degli “addetti ai lavoriâ€, anche di fronte ai moltissimi errori che commettevamo. Volevamo fare qualcosa che in Italia non c’era e sentivamo di doverlo fare da soli.
Rivolgersi ai bambini, o comunque ai giovani, all’inizio è stato un fatto per così dire naturale: in Italia erano i soli lettori di libri illustrati.
Oggi sono invece convinta che fare libri per bambini è una grandissima possibilità : quella di affrontare qualsiasi tema, anche il più spinoso. Intervenire nella produzione e nella formazione di cultura. Attraverso l’uso e la commistione di molteplici linguaggi, dalla poesia alla narrativa, dall’arte all’illustrazione e alla grafica, si può fornire ai ragazzi qualche piccola chiave per capire il mondo. Si può dar luogo a domande cruciali che il mondo degli adulti spesso è troppo vile da porsi.
Quanti titoli in un anno?
Fino ad oggi, dodici, tredici. Più le ristampe. Dal quest’anno diventano quindici.
Spider, Il grande Alfredo, orecchio acerbo 2010
Nella scelta dei libri che pubblicate potreste individuare un filo conduttore? E’ uno stile? Un messaggio? Un’idea? Un desiderio?
Oggi come allora sono convinta che i libri che pubblichiamo possano piacere solo ad alcuni bambini. Altri li ignoreranno, altri ancora non li capiranno. Ma fin dall’inizio ci siamo posti un problema pedagogico. La parola «pedagogia» deriva dal greco paidos «bambino» e ago «guidare, condurre, spingere avanti». Considero buoni libri quelli che fanno crescere, suscitano domande e aprono spazi di ricerca e immaginazione diversi, spingono avanti, per l’appunto. Grandi o bambini, meglio ancora se grandi e bambini. Lo stile non mi interessa, non è un problema che mi sono posta mai. Credo sia importante l’autenticità .
Quali caratteristiche deve avere un testo o un’illustrazione per sedurvi? Cosa è che vi fa dire: “questo illustratore (autore) è per noi�
Quando mi costringe a pensare, oppure quando mi sorprende, o, ancora, quando mi incanta per la sua bellezza.
Nella situazione culturale e politica del vostro paese vi sentite inseriti in una rete che vi sostiene? Come la definireste? Quali sono i suoi fili principali?
Una rete? Se c’è – ma ne dubito – forse è più saggio starne alla larga. Le reti non sono fatte per intrappolare? Meglio nuotare in profondità . Insieme ad altri, liberi.
Remy Charlip, Fortunatamente, orecchio acerbo editore 2011
Le co-edizioni: che politica avete di vendita e acquisto dei titoli? Preferite creare i vostri libri, venderli e/o comprarli dall’estero? Perché? Rispetto ai titoli che comprate e/o vendete ci sono differenze di accoglienza nei diversi mercati internazionali?
Proprio ora siamo arrivati a 100 titoli, e i libri tradotti da altri paesi sono 14, quindi, precisamente, il 14% del nostro catalogo. Sono pochi. Quindi, di sicuro preferiamo creare i nostri libri. Il motivo è innanzitutto lo stesso che ci ha spinto a dar vita alla casa editrice: la possibilità di far bene il nostro lavoro, e anche di rendere concrete le idee. E poi, è una vera felicità riuscire a farli tradurre in altri paesi. Non tanto per i soldi, che sono quasi sempre pochi. Per noi stessi, per gli autori e anche, ma solo un pochino, per orgoglio nazionale. Riuscire a fare coedizioni è invece fondamentale anche da un punto di vista economico, vuol dire abbassare di molto i costi di produzione perché quanto più è alta la tiratura, tanto più scende il costo di ogni singola copia. E questo vuol dire anche poter ridurre il prezzo di copertina. Tuttavia credo che un editore abbia anche il dovere di far conoscere nel proprio paese autori di altri paesi. Penso a Remy Charlip -è suo, fra l’altro, il nostro centesimo titolo, “Fortunatamenteâ€-, Blex Bolex, Armin Greder, Atak, Benoît Jacques, Sergio Mora, Martin Jarrie e a molti altri che spero riusciremo a pubblicare. Per quanto riguarda l’ultima parte della tua domanda, la risposta è sì, ci sono differenze grandi di accoglienza di un titolo fra un paese e l’altro. Possono dipendere da vari fattori. Credo che quello decisivo sia la “forza†dell’editore, ma altrettanto importante è il contesto culturale. È una banalità , ma forse vale la pena ripeterla. Viviamo in un paese in cui sulla cultura si è sempre investito poco, e quel poco oggi è diventato nulla. Naturale che un titolo –che sia un libro nato qui o altrove- nel nostro paese ha possibilità di riuscita di gran lunga inferiori a quelle della gran parte dei paesi occidentali.
“Fabbricare cultura” nell’Italia di oggi, una missione, una sfida o una passione a perdere?
Dipende da quale cultura. Sempre, nel nostro lavoro, che lo si voglia o no, “si fabbrica culturaâ€. Io ne sento la responsabilità , so che i libri alle volte possono cambiare la visione del mondo, possono dar vita a -magari piccole- rivoluzioni. E quindi, probabilmente, è anche una sfida. Destinata a perdere? Ancora più probabile.
Una cosa che vi piace del vostro lavoro e una che non vi piace.
Mi piace il momento in cui arrivano le immagini. Ciò che accade fra scrittura e immagini non credo smetterà mai di darmi sorprese. ?Non mi piace vedere proposte di libri inaccettabili, ma ancor meno mi piace rifiutarle.