“Giorno di neve” di Komako Sakaï
28 Ottobre, 2008Per parlarvi di Giorno di neve di Komako Sakaï , edito in Italia da Babalibri, farò una cosa molto giapponese: non vi parlerò né di Giorno di neve, né di Komako Sakaï (autore-illustratore che amo moltissimo). Vi porterò invece tra le righe di una poesia di Rainer Maria Rilke, poeta di mastodontica grandezza.
Rilke ha, meglio di molti altri, provato a dire cosa è l’infanzia. Impresa ardua, giacché l’infanzia, come è in sé, nessuno può dirlo. La memoria incerta, l’idealizzazione, la rimozione o la nostalgia, sono gli unici strumenti disponibili per scavare tra le macerie del tempo e possono, al meglio, restituirci cocci di vasi dai geroglifici indecifrabili.
L’osservazione diretta del bambino, tanto amata nel ‘900, che ha avuto il pregio di regalarci magnifici saggi di psicanalisi, pedagogia e psicologia, è mediata, ahimè irrimediabilmente, dalla griglia di comprensione dell’osservatore. Ci resta forse l’artista, la cui libertà a volte gli permette di conservare, come monumento vivo, un brandello di infanzia.
“…ed eravamo fino all’orlo colmi di figure.
Eravamo come pastori immersi
in tanta solitudine e immense distanze,
e da lontano ci chiamavano e sfioravano,
e lentamente fummo – un lungo nuovo filo –
immessi in quella catena di immagini
in cui duriamo e ora durare ci confonde.
(Rainer Maria Rilke)
Rilke utilizza due parole diverse: figure e catena di immagini (nell’originale: Figur/ Bilder-Folgen) per indicare il mondo percepito. Il bambino è colmo di figure, l’adulto, dopo che si è trasformato in un lungo nuovo filo, può solo accedere a un susseguirsi di immagini. L’adulto, come scriveva Valèry, non vede attraverso gli occhi, ma vede attraverso i concetti (incatenati uno all’altro), l’adulto non guarda, sa (o presume di).
Il bambino, come l’animale, vede invece l’Aperto. Il mondo gli appare allora per quello che forse era agli inizi del tempo: vasto di sovrumane distanze. Le figure riempiono il bambino come un vaso colmo d’acqua, come acqua fluiscono dentro e fuori di lui, senza che lui opponga resistenza.
Komako Sakaï, Jour de neige, École des Loisirs
Komako Sakaï, Jour de neige, École des Loisirs
Ascoltate ancora dalle Elegie Duinesi:
“Quello che c’è fuori, lo sappiamo soltanto
dal viso animale; perché noi, un tenero bambino
già lo si volge, lo si costringe a riguardare indietro e
vedere
figurazioni soltanto e non l’aperto ch’è sì profondo
nel volto delle bestie.
(…)
Sempre c’è mondo
e mai quel nessundove senza negazioni
puro, non sorvegliato, che si respira,
si sa infinito e non si brama. Uno, da bambino
ci si perde in silenzio e ne è
scosso. O un altro muore, e lo diventa.
(Rainer Maria Rilke)
L’Aperto, che noi possiamo cogliere solo riflesso negli occhi umidi degli animali, è uno spazio dove il bambino può entrare e stare liberamente (come pastore immerso in immense distanze). Ma di continuo noi, dalla nostra distanza siderale, lo richiamiamo indietro a vedere figurazioni. Ecco che a figure e catena di immagini si aggiunge: figurazioni (Gestaltung), progetti di forme. Il mondo a quanto pare, per noi incatenati, è ormai una scatola-forma, un contenitore dentro il quale siamo chiusi; l’Aperto, ci è precluso.
Rilke però ci consola di questa sorte: ci dice che avremo di nuovo modo di uscire dalla scatola, di liberarci dalla catena di immagini, di voltarci verso l’aperto e distogliere lo sguardo dai riflessi sul fondo della grotta: moriremo.
Komako Sakaï, Jour de neige, École des Loisirs
Nelle immagini così nitide di Rilke, lo spazio dove il bambino vive le sue giornate (di cui nulla sappiamo direttamente) ha dunque assonanza con lo spazio che è aperto davanti agli occhi degli animali, ma anche con lo spazio che si abita quando si è morti. Non stupisce dunque che il bambino quando gioca a perdercisi in silenzio, ne sia scosso. Come non stupisce che l’adulto impieghi molte energie per togliere il bambino il più velocemente possibile da quei luoghi di immense distanze e luce sinistra.
Capita a volte nella bieca vita di noi incatenati, che un evento o semplicemente della neve ci costringa a fermarci. Allora guardiamo la figura della neve che cade, lasciamo che la neve ci colmi.
Komako Sakaï, Jour de neige, École des Loisirs
Per lo spazio di un gioco, rassicurati dall’eccezionalità -temporalmente limitata- dell’evento, guardiamo il mondo. Il panorama stravolto di neve ci ricorda qualcosa, un odore, un ricordo di cui non sappiamo ritrovare il senso (ci ricorda l’Aperto).
Sentiamo distintamente che il bambino sta nel giorno di neve in un modo diverso dal nostro, e ci accostiamo a lui. Il bambino si lascia tenere compagnia, si lascia sfiorare, sa -con quieta rassegnazione- che l’adulto non è capace di raggiungerlo del tutto (da lontano ci chiamavano e sfioravano). Il bambino guarda la neve cadere fitta e dice: “Mamma, sembra che siamo soli sulla Terra” .
(Ingrandite l’immagine sottostante, guardate con che tenerezza e sforzo l’adulto si piega verso la frase appena pronunciata dal bambino -verso la sua verità -, senza poterla afferrare).