Analisi di ‘Une chanson pour l’oiseau’ di Remy Charlip. Parte1/3

30 Settembre, 2015
Margaret Wise Brawn e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, Didier Jeunesse 2013

Une chanson pour l’oiseau, (titolo originale del 1958: The dead bird) è una breve storia scritta nel 1938 da Margaret Wise Brown – una delle più grandi scrittrici per l’infanzia del secolo scorso – per una raccolta di testi brevi, e illustrata postuma nel 1958 (l’autrice è mancata nel 1952) da Remy Charlip.
Il libro è stato riedito nel 2013 nella collana di libri vintage
Cligne Cligne (Didier Jeunesse), curata da Loïc Boyer; Loïc ha curato anche la traduzione e la grafia del testo (scritto a mano come nell’originale).
Dall’incontro di due artisti del calibro della Brown e di Charlip non poteva che nascere uno dei più bei libri illustrati di tutti i tempi.
Leggendo il libro per la prima volta non sono riuscita a trattenere le lacrime.


La storia è molto semplice e bella, racconta di alcuni bambini che trovano un uccellino morto, lo seppelliscono, inventano una canzone per lui, gli fanno un funerale, si commuovono, curano la tomba per un po’ di tempo portando fiori e foglie, poi si dimenticano dell’uccellino e ritornano a giocare.
Sublime in questo libro, oltre alla liricità del testo, è il ritmo tra testo e immagini. La sincope che ad ogni doppia pagina voltata trattiene e rilascia il tempo. Un libro sulla morte, in fondo, non poteva essere che un libro sul tempo.

Apriamolo. Nella prima doppia pagina, quella dove la storia fa la sua comparsa (un luogo dove la tensione scenica è altissima, come nell’istante che segue l’aprirsi di un sipario teatrale), non troviamo quasi nulla. Non un testo, non un paesaggio, non nuvole.
Su un orizzonte piano e monotono vediamo un uccellino morto.

La prima doppia pagina di un libro illustrato, generalmente, accoglie la presentazione del personaggio. E la parte destra della doppia pagina, in particolare, è quella dove ogni elemento rappresentato è più vivo e pronto all’azione perché più vicino al margine destro del libro, che è il margine che confina con il tempo che prosegue nella pagina successiva.


Mettere, nella pagina più trionfale del libro e nel luogo della massima dinamicità narrativa, un esserino morto, crea un controsenso, uno schianto dell’energia dinamica della storia che incomincia sull’inerzia di quel piccolo uccello delicato. La morte non è questo? Questo schianto, questo controsenso?
Aprendo il libro si resta ipnotizzati.
Capiamo da subito che la morte è protagonista assoluta del libro: con la sua essenzialità scultorea e la sua capacità di ridurre a un vuoto pulsante quello che le sta intorno.
Voltiamo la pagina. Ci accolgono due pagine altrettanto vuote, bianchissime. È un vuoto anche questo, ma di un registro diverso da quello precedente: siamo nello spazio della parola scritta, lo spazio della rappresentazione simbolica del mondo.


Nello stesso luogo dove era poco fa l’uccellino, alcuni caratteri incerti come impronte di passero sulla neve recitano:

“L’uccello era morto quando i bambini l’hanno trovato”.

L’imperfetto “era” crea una frattura con lo scenario atemporale che abbiamo contemplato nella pagina precedente. Mi spiego meglio: l’uccellino morto, quando lo guardiamo nella prima doppia pagina, è qui e adesso (qualsiasi immagine che vediamo è contemporanea al tempo del nostro sguardo: non possiamo vedere se non adesso).
Il testo, invece, ci dice che l’uccellino e la sua morte sono altrove: in un tempo già passato.
Ci dice anche qualcos’altro: ci dice che non siamo noi (noi lettori) ad aver trovato l’uccellino, ma che sono altri bambini ad averlo trovato.
La storia ci separa, ci stacca, dall’ipnotico qui e ora della morte. Ci permette una rielaborazione.

Se l’immagine della prima pagina aveva il tempo verbale declinato al presente: ‘un uccello è morto’ (ammesso che si possa parlare di tempo verbale per un’immagine), nella seconda pagina una dichiarazione scritta (non è questo il potere della scrittura?) strappa la morte alla sua eternità immobile e la riporta nel tempo umano: quello di una storia raccontata. L’uccello era morto quando i bambini l’hanno trovato. Il tempo della vita coincide, così, con il tempo retorico della fiaba. “Era una volta”.

Quando apriamo la terza doppia pagina, la scena è improvvisamente animata dai bambini che hanno trovato l’uccellino. È l’incontro dei bambini con l’uccellino morto, l’incontro dei bambini con il fatto che si muore.
I loro gesti sospesi – fotografati da Charlip nel momento della loro massima espressività retorica – così come la netta separazione dei bambini in due gruppi – il primo gruppo composto di due testimoni che discutono del fatto, il secondo gruppo più vicino all’uccellino, sia fisicamente che emotivamente – tutto ricorda una deposizione quattrocentesca.
Colpisce anche che nel libro sia sempre la bambina (il femminile?), unica protagonista femminile del gruppo, la sola a toccare l’uccellino.
Non mi occuperò oltre di questo parallelo tra le immagini di Charlip e la tradizione pittorica del quattrocento, mi basta portare la vostra attenzione sul ‘momento’ in cui Charlip ha ritratto i movimenti dei bambini: sospesi a metà di un’azione. Un modo atipico di ritrarre dei bambini in movimento. Rigido e ieratico.

Beato Angelico, deposizione, 1436
Beato Angelico, deposizione, 1437/40 c.; Remy Charlip The dead bird, 1958

Il testo della doppia pagina che segue (sempre bianca, senza immagini) è più lungo, dice che non era passato molto tempo da quando l’uccellino era morto (è il testo che continua a darci informazioni sul tempo che scorre). Il corpicino dell’uccello era ancora tiepido quando i bambini l’hanno trovato. I bambini hanno sfiorato il suo petto per sentire il battito rapido del cuore, ma non c’era battito.

“È così che i bambini hanno saputo che era morto. “

Bellissima l’immagine della bambina che sente il cuore dell’uccellino e la tensione dei bambini intorno a lei.
Il testo prosegue con la descrizione anatomica, realistica, delle fasi di irrigidimento del corpo dell’uccellino. La prima relazione che i bambini instaurano con la morte è scientifica. Il corpo è prima tiepido, poi freddo, le ali e le zampine dell’uccellino sempre più rigide, il cuore non batte più. La vita che lascia il corpo è prima di tutto un fatto tattile. La vita è, prima di essere simbolo e metafora, temperatura corporea, morbidezza, movimento.

In questo post abbiamo visto come Charlip ha saputo trasferire la rigidità della morte nei gesti dei bambini; vedremo con quale raffinato stratagemma narrativo abbia saputo tradurre la rigidità anche nel ritmo del libro.
Ricordate che un gesto ha sempre un inizio, un movimento, una fine; un illustratore può scegliere in che momento fotografare la parabola: questa scelta porta a una maggiore o minore naturalezza dei gesti, una maggiore o minore ‘retoricità’ narrativa.

Anna Castagnoli

Segue. Leggi la seconda parte…

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