La fotografia nei libri per bambini: l’immagine tra realtà e metafora

30 Gennaio, 2018

di Anna Castagnoli

Robert Doisenau, L’enfant et la colombe, Chêne, 1978

Qualche giorno fa, al Museo della Fotografia Contemporanea Mufoco di Cisenello Balsamo (Milano) ho tenuto una lunga conferenza sulla fotografia nei libri per bambini.
Le due curatrici del museo avevano frequentato il corso Come funziona  l’album illustrato da Spazio BK e mi avevano poi contattata all’interno di un ciclo di conferenze pensate per educare all’immagine e ai suoi significati.
La libreria Spazio BK ha accompagnato l’evento con un banchetto zeppo di bellissimi libri, vintage e moderni, illustrati con la fotografia. Insieme a BK , abbiamo costruito una bibliografia di un centinaio di titoli, trasformata in parte in fondo per la biblioteca del museo.


I 60 posti disponibili si sono riempiti in poche ore dall’annuncio dell’incontro, prova di quanto vivo sia l’interesse per la fotografia nei libri illustrati (si veda anche la bella mostra romana curata dall’associazione Cartastraccia insieme ad Alessandro Dandini De Sylva, di cui si parla in questo post).

Sono partita nella mia ricerca da un presupposto particolare: non amo i libri per bambini illustrati con la fotografia.
La ricerca, di cui vi do qualche traccia in questo post, mi ha permesso di fare un pochino pace con questa antipatia, ma soprattutto di capire meglio quale ne sia la causa.
Intanto, condividevo con molti (non ho trovato eccezioni sul web) il pensiero che il solo fatto che ci sia la fotografia in un libro per bambini, significhi qualcosa di preciso.
Etichettato, come in un museo delle scienze, con il nome di una qualche rara specie diversa per DNA da quella dell’illustrazione, il libro illustrato con la fotografia genera tutta una schiera di reazioni, entusiastiche o diffidenti: “Si sa che i bambini amano tantissimo i libri con la fotografia”, “si sa che i bambini hanno difficoltà a capire le fotografie”, etc.
Posizioni spesso diametralmente opposte di cui non ho trovato nessun supporto scientifico.
Ho iniziato così a mettere ordine nei pensieri. Prima di affrontare la ricerca, dovevo capire cosa fosse la fotografia: se davvero fosse diversa, in modo ontologico, dalla pittura e in cosa.
Ci sono fotografie che potrebbero essere scambiate per quadri e quadri che sono identici a fotografie (soprattutto oggi, con l’avvento del digitale).
Allora, quale è la differenza?

A sinistra Degas, a destra una fotografia di Robert Demachy

La prima cosa che mi è venuta in mente è che la fotografia può mentire, un quadro, no.
Ne ho trovato conferma nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag (lettura fondamentale): se diciamo che un quadro è falso, ci riferiamo alla sua attribuzione, se diciamo di una fotografia che è falsa, affermiamo che quello che sta inquadrando non è successo o che è accaduto in modo diverso da come il fotografo ce lo vuole presentare.
Questo punto va a favore di una radicale differenza.
La pittura, per quanto realista, è sempre espressione di un’immaginazione. La fotografia, inventa fino a un certo punto: qualcosa del reale viene davvero catturato.
Insomma, un quadro non può mentire, la fotografia, sì. Ma mentire rispetto a cosa?

Cottingley fairies, 1917

Esemplare è il caso delle fate di Cottingley.
Nel 1917, arrivarono alla direzione di un giornale inglese alcune fotografie accompagnate da una lettera. Due ragazzine sostenevano di aver fotografato le fate e allegavano alcune fotografie.
Il giornale pensò bene di affidare l’inchiesta a Arthur Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes. Doyle fece analizzare le fotografie: gli esperti affermarono che erano autentiche, non c’era fotomontaggio né trucco.
Nonostante il suo fiuto da detective, Doyle delegò la visita alle due ragazze a un assistente, che partì per la campagna inglese. L’assistente aveva il cuore di un ragazzo, il desiderio che le fate esistessero davvero influenzò tutta la sua indagine. Trovò che le fanciulle fossero troppo giovani e ingenue per aver architettato una bufala di quella portata. Per farla breve, le foto vennero dichiarate autentiche da Doyle e metà Inghilterra credette davvero che le fate fossero state fotografate.
Le ragazze aspettarono la morte di Doyle per dire la verità, cioè che avevano disegnato e ritagliato delle figurine su carta e le avevano fotografate nell’erba.
Si può dire, in questo caso, che la macchina fotografica non aveva colto la realtà? No, era la messa in scena ad essere menzognera, la macchina fotografica aveva fatto il suo dovere: documentare quello che vedeva.

Ho scovato un divertente libro per bambini della stessa epoca dove la fotografia mente, ma in un modo ancora diverso: The Six-Inch Admiral,  di C. H. Park.

C. H. Park, The Six-Inch Admiral, 1901

È la storia un po’ nonsense di una bambina che rompe un vaso pieno di lacrime, che uno zio le ha portato dalla Cina.
Grazie al potere di queste lacrime, riesce a diventare piccola (tipo Alice) ed entrare nel regno delle bambole. Una serie di foto-collage illustrano il libro.
Qui siamo davanti a una menzogna di tipo diverso: la fotografia viene ritoccata per dare l’illusione di una realtà che non è mai esistita.
Una menzogna che solo la fotografia può compiere, in questo caso poetica e innocente, ma pericolosissima quando sfruttata da un regime politico. (Oggi questo tema è particolarmente in auge, si laggano le riflessoni sulla post-verità).

C. H. Park, The Six-Inch Admiral, 1901

Nonostante queste possibilità menzognere o illusorie della fotografia, la fotografia è stata quasi sempre usata nei libri per bambini in senso realistico.
Cioè non come oggetto artistico, ma come strumento, in un certo senso, di propaganda del reale.
È questa la ragione per la quale non la amo.
Rari sono gli esempi di fotografia artistica o sperimentale (a mio gusto sublimi), dove la fotografia diventa opera d’arte non per quello che rappresenta, ma per come si esprime.

Uno dei più begli esempi che ho trovato è un lavoro di Oskar Nerlinger, del 1928: una serie di fotografie di gelatine di diversa trasparenza, affiancate dai versi poetici della moglie Alice Lex, anche loro stampati attraverso le gelatine. Testo e immagine diventano entrambi immagine pittorica, ma resa reale dal fatto che sono catturati dalla macchina fotografica.
(Non so cosa darei per avere questo libro: purtroppo, dalle mie ricerche, pare non sia mai stato edito).

Oskar e Alice Lex Nerlinger (Fotografie probabilmente esposte alla Mostra Film und foto, Stuttgart 1929)

Se eccezioni al realismo fotografico ci sono state (soprattutto negli anni ’70 e nel 2000), sono spesso accompagnate dalla pittura o da inserti grafici, come se la fotografia, da sola, non fosse in grado si essere surreale, onirica, pittorica o astratta (cosa non vera).

Perché? Quanto la fatale commistione tra pedagogia e letteratura per bambini ha influenzato queste scelte?

Anche senza allontanarci dal realismo fotografico, inciampiamo in una rete di concetti ben poco chiari: la fotografia fotografa il reale, bene, ma cosa è il reale?
È quello che vediamo, è quello che sentiamo? È come mettiamo in scena la vita? È il balletto sociale a cui siamo stati educati?
Scherer & H. Engler, i due fotografi tedeschi che illustrarono quello che viene considerato uno dei primi libri per bambini fotografici, Ein Tag aus dem Kinderleben (Dresda, 1877), ritrassero delle bambine messe nelle stesse pose di Mademoiselle Lili, un libro del genere “bambina modello, birichina solo il giusto” che all’epoca andava per la maggiore.
La rappresentazione illustrata dell’infanzia, nei giornali e nei libri, dettava la sua legge di buone maniere anche nella realtà, e veniva poi ripresa dalla fotografia!

M. Scherer & H. Engler, Ein Tag aus dem Kinderleben, Dresda, 1877 (qui sopra la copertina dell’edizione danese).

Nei primi decenni della nascita della fotografia, a lato di questi bambini modello fotografati in stile vittoriano, c’era la complessità di una realtà infantile poverissima e sfruttata.
Charles Dickens, con i suoi romanzi, contribuì notevolmente a sensibilizzare l’opinione pubblica.
(Vi ricordo che in quell’epoca i bambini lavoravano a partire dai 3/4 anni, sette giorni su sette, dodici ore al giorno e che oggi abbiamo solo spostato il problema geograficamente, per non averlo davanti agli occhi).
Prendiamo come esempio di “fotografia che dice il vero” due fotografi sociali di quegli anni, entrambi mossi dal desiderio di sensibilizzare la borghesia a votare leggi contro lo sfruttamento minorile (le prime battaglie furono fatte per concedere ai bambini un giorno di pausa a settimana).
Jacob Riis, fotografo e sociologo danese, ritrae i bambini lavoratori con uno sguardo, appunto, alla Dickens (suo autore di formazione).
Il messaggio è la forma: per denunciare la verità dello sfruttamento infantile, Riis usa il realismo fotografico.
Non che quei bambini ritratti non siano reali, ma il modo in cui Riis li ritrae, afferma qualcosa sul modo di porsi davanti a quella realtà: la realtà è così, abbiate compassione (ogni compassione, come ricorda la Sontag, implica una distanza).

Jacob Riis, 1890 c.

Guardate ora due fotografie di una famosa serie di ritratti di Lewis Hine, anche lui impegnato fotografo sociale americano di inizio ‘900.

Hine sovrappone più lastre con ritratti diversi dello stesso bambino. Quello che vuole denunciare è la mancanza di identità di questi bambini: sono mostri trasfigurati dalla fatica.
Il messaggio è la forma. Hine non dice: abbiate compassione prima di dire le preghiere e andare a dormire, Hine dice: siatene inorriditi, è questo il prezzo che la vostra vita borghese fa pagare loro, una destrutturazione completa di ogni possibile identità.

Lewis Hine, 1913 (trovate informazioni su questo lavoro pioniere e purtroppo mai pubblicato, qui).

Due modi diversi di raccontare la stessa realtà.
Non fatevi ingannare dalla fotografia. La fotografia non parla della realtà. La fotografia parla sempre di una certa rappresentazione della realtà. La realtà così come è, se mai è esistita, è troppo densa di significati perché una qualsiasi fotografia possa tradurla interamente.

Sulla base di questa considerazione, ho analizzato decine di libri fotografici per bambini, alla ricerca dei modi in cui la fotografia è stata usata. Mi sono accorta che la fotografia è soprattutto usata per dire “la realtà è così” a scopo didattico (mostrare le cose), e spesso in concomitanza con progetti editoriali politici e sociali (mostrare una realtà esemplare).
Esempio, i libri di fotografie di bambini di periferia o di campagna, affidati a fotografi del calibro di Kertesz, Bresson e Doisneau da editori di sinistra quali La Guilde du Livre e Plon, tra gli anni ’30 e ’50.
Un preciso intento di idealizzare e promuovere una nuova immagine di infanzia (poi arrivata fino a noi), in antitesi con quella post-vittoriana e borghese (oltre all’intento di tirare su il morale alla popolazione tra le due guerre).

Plon e La Guilde du Livre, 1933 – 50 (Fotografia umanista)
Robert Doisneau (testo di Blaise Cendrars), La banlieue de Paris, La guilde du livre, 1949

Oppure, due decenni, più tardi, le collane I bambini del mondo, sullo stesso filone retorico della mostra  The Family of Man, curata da Edwuard Steichen(1), che tanto clamore fece al museo di Arte Moderna di New York, nel 1955. Mostra di oltre 500 fotografie messe insieme per dire: tutti i popoli del mondo sono amici.

Dominique Darbois, Enfants du monde, Nathan, 1952
Catalogo della mostra The Family of Man, 1955
The family of man, Museum of Modern Art, New York 1955

Ora, senza nulla togliere al prezioso intento politico di queste collane, sappiamo che sia Doisneau che Kertesz che Bresson mettevano in posa i loro soggetti, così come sappiamo l’ipocrisia di una borghesia americana profondamente razzista che face ore di coda per dire di aver visto The Family of Man (come giustamente denuncia la Sontag).

Così come sappiamo che la serie “I bambini del mondo”, un vero e proprio successo editoriale di cui tutti noi bambini degli ‘anni 70 abbiamo avuto in mano un esemplare, per quanto affascinante, descriveva la allegra giornata tipo di un/una bambina/o di paesi poveri o esotici, ben lontana dalla realtà di fame e miseria dei veri bambini del mondo.

Andando ancora avanti negli anni, altri esempi di fotografia usata per dire (o pretendere di dire) il reale: i libri didattici di Emme edizioni (Giochi d’acqua, Giochi di terra) o le esperienze editoriali dei maestri Célestin Freinet e Mario Lodi, con La bibliothèque de travail, poi Biblioteca di lavoro (trovate un approfondimento qui). Giornalini scolastici o giochi nei quali la fotografia aveva il compito di dire che il reale non ha bisogno di aggiunte, soprattutto quando a osservarla è un bambino (la realtà è meravigliosa), oppure di informare (anche tu devi sapere come stanno le cose).

O ancora il realismo programmatico della collana di Einaudi Tanti bambini, curata da Munari, che decretava la fine dei libri zeppi di fate e maghi (ne avevo parlato qui).

Emme edizioni, 1977

Non è questo lo spazio per terminare la storia dell’illustrazione nei libri bambini che ho tracciato durante la conferenza, e sicuramente ho preso scorciatoie che non rendono giustizia alla complessità della storia dei libri fotografici per l’infanzia, ma è l’impressione che ho avuto e mi interessa condividerla con voi: la fotografia è stata spesso usata con un intento politico, oltre che pedagogico.

Ma questo non è il solo modo nel quale la si può usare, ed è stata una scoperta anche per me: la fotografia non è una certa specie animale, ma una quantità enorme di animali diversi, non necessariamente reali.
Se mi concedete un raffronto sfasato di un paio di decenni per illustrarvi questo concetto, metto a confronto le fotografie di due libri.
Il primo appartiene alla serie “bambini del mondo” ed è dall’autrice di Pippi Calzelunghe, Astrid Lindgren (ne scrisse diversi di quel genere, affiancata dalla fotografa Anna Riwkin-Brick): Randi Lives in Norway. La storia descrive, con poco spazio alla fantasia ma molto alla poesia del reale, la giornata di un bambino norvegese. Il secondo è la fiaba di Cappuccetto Rosso, il testo è di Perrault, le fotografie di Sarah Moon.

Astrid Lindgren, Anna Riwkin-Brick, Randi Lives in Norway, 1966
Sarah Moon, Le Petit Chaperon Rouge,  Grasset, 1983

Osservandoli, ci accorgiamo che la fotografia è usata in due modi lontani tra loro quanto le renne e gli unicorni.
Sarah Moon sceglie il bianco e nero per un maggior effetto drammatico, accentua i contrasti e introduce lo sfocato per dare un sapore fiabesco alle sue scene. Anna Riwkin-Brick, al contrario, fotografa i bambini norvegesi senza effetti artistici (anche se in bianco e nero, forse non per scelta ma per ragioni economiche), per dire: i bambini norvegesi sono così, questa è la realtà.
La messa in pagina delle immagini contribuisce, in un caso, al realismo (vediamo il quadro netto delle foto appoggiate sulla pagina, due in una doppia pagina, il testo prende molto spazio), nel secondo, all’illusione fiabesca (immagine intera a doppia pagina, testo ai margini).

Cercherò di trovare il tempo, nei prossimi mesi, di postarvi altri contenuti di questa lunga conferenza.
È stato un viaggio affascinante che non smette di interrogarmi. Come punto fermo mi resta che quando diciamo “libri illustrati con la fotografia” non stiamo dicendo quasi nulla.
Le domande da farsi davanti a un libro per bambini fotografico sono: come l’autore/artista sta usando la fotografia? Per dire cosa? I bambini capiranno che ogni rappresentazione del reale non è altro che una parte della verità? O che persino le fate possono essere reali, se ci crediamo? E gli adulti?

Anna Castagnoli

Pierda (Pierre Portelette), Alphabet, Delagrave 1933

Nota 1:
Edward Steichen è anche il fotografo dei due imagier fotografici degli anni ’30: The first picture book (di cui potete trovare una recensione qui) e The second picture book. Nel secondo libro, Steichen contestualizzava gli oggetti presenti in The first picture book inserendoli nelle mani dei bambini (i bambini, però, erano scontornati su fondi neutri, neri o grigi, diventando essi stessi, in un certo senso, oggetti).

Per approfondire:
Susan Sontag, Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi 2004
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, 2003
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi 2003
Egle Becchi e Dominique Julia:  Storia dell’infanzia. Dal Settecento a oggi. Volume  II, Laterza
Il blog Miniphlit, interamente dedicato ai libri fotografici per bambini

4 Risposte per “La fotografia nei libri per bambini: l’immagine tra realtà e metafora”

  1. 1 Ferdi Pavia
    30 Gennaio, 2018 at 18:28

    Ho pensato che la fotografia per libri per bambini e sempre più o meno realisticamente l’immagine che un adulto ha del mondo, mentre una illustrazione è la realtà filtrata dall’immaginazione del illustratore che si immedesima nel mondo fantastico e poetico proprio del bambino.

  2. 2 Anna Castagnoli
    30 Gennaio, 2018 at 18:54

    Vero, però dall’aporia che siano sempre immagini di adulti pensate per bambini, non se ne esce :)
    Alla conferenza ne abbiamo parlato, non c’è modo di uscirne.
    Per questo io preferisco i libri che escono da una individuale e profonda esigenza creativa, non pensati a tavolino come collane. Perché per quanto anche la creazione individuale sia sempre viziata da un’idea del mondo, almeno affonda le sue radici nell’inconscio, là dove (forse) si trova qualcosa che non è alla moda.
    Questa creazione spontanea può esprimersi sia con l’illustrazione, sia con la fotografia. Nell’illustrazione è più difficile vedere gli stereotipi, ma ci sono in egual misura.

  3. 3 monica
    31 Gennaio, 2018 at 20:30

    Che bella conferenza deve esser stata! la replicherai da qualche altra parte? ci tieni informati? un saluto e un abbraccio, m.

  4. 4 Anna Castagnoli
    1 Febbraio, 2018 at 11:08

    Spero di sì! Grazie Monica