Il “Senza nome” di Silvana D’Angelo: una intervista

15 Novembre, 2008

E’ da poco uscito un bellissimo libro per Topipittori: “Senza nome“, opera prima di un giovanissimo illustratore pieno di talento, Valerio Vidali, con testo di Silvana D’Angelo. Il libro ha una genesi curiosa. Due anni fa i Topipittori notarono con interesse tre tavole di Valerio Vidali selezionate al concorso portoghese Ilustrarte, poco dopo Valerio spedì loro alcuni esempi dei suoi lavori, e zac! La scintilla scoccò. I Topipittori decisero di affidare a Silvana D’Angelo (che già aveva lavorato allo stesso modo per Velluto, storia di un ladro) la decifrazione delle scene contenute nelle tre tavole realizzate per Ilustrate, perché a quanto pare, segretamente, contenevano una storia. Voi, guardandole, che storia avreste inventato?

Valerio Vidali, tavola selezionata al concorso Ilustrate 2006

Valerio Vidali, tavola selezionata al concorso Ilustrate 2006

Valerio Vidali, tavola selezionata al concorso Ilustrate 2006

Silvana D’Angelo ha saputo inventare una storia divertentissima e sorprendente. Non vi rivelerò nulla di più di questo: il cane protagonista è appassionato di nomi, e per malasorte, non conosce il suo. Così tra riflessioni di natura filosofica e doveri quotidiani di cane, arriva alla decisione di una fuga alla ricerca del suo nome…

Ma come nasce una storia? Entriamo dietro le quinte di questo libro, scopriamo su quali alambicchi è maturato attraverso due interviste parallele: alla sua autrice, Silvana D’angelo e al suo illustratore, Valerio Vidali.

 

INTERVISTA A SILVANA D’ANGELO

Immagino che non sia facile iniziare una storia da tre immagini. C’è stato un colpo di fulmine o è stato un lavoro lento di appropriazione dell’atmosfera delle tavole? C’è stata un’immagine in particolare da cui sei partita? Un’emozione? Un frammento di immagine?
All’inizio sono partita tutta baldanzosa, perché la facilità con cui ho elaborato il testo di Velluto mi aveva viziato e illuso. Tutta fortuna da principianti: scrivere Senza nome è stato un lavoro lungo, che ha richiesto tanta pazienza da parte di tutti, anche degli editori. Prima di trovare la linea narrativa attuale ho lavorato su due precedenti ipotesi di testo, che però non funzionavano gran che. E anche dopo aver buttato giù l’embrione dell’ultima versione, ho dovuto faticare non poco per trovare il tono giusto, i dettagli dei singoli episodi, il finale.

Ma sin dall’inizio ci sono stati due punti fermi, due costanti, e cioè l’anaffettività – o trascuratezza affettiva – del padrone di Reginaldo, suggerita dal fatto che non gli si vede mai la faccia, e il talento a tutto tondo del cagnetto. Ricordo soprattutto la tavola in cui Reginaldo parla al telefono – la magia della parola! Della comunicazione! – mentre il padrone si lava i piedi – un’azione di una quotidianità banale e squallida. D’altronde, dal punto di vista grafico, Reginaldo mi sembra l’unico personaggio tridimensionale in un ambiente generalmente piatto: viene proprio voglia di mettergli le mani addosso per grattargli la pancia e strapazzarlo… Anche il suo padrone viene rotondizzato solo quando abbraccia Reginaldo.

Valerio Vidali, Senza nome, Topipittori 2008

Ci puoi raccontare la storia della storia di Reginaldo? Come nasce una storia?
Per me, e immagino per tutti, si scrive su due livelli, o per meglio dire con elementi che fanno capo a due ambiti diversi. C’è la sfera dell’intuizione, dell’ispirazione, dell’idea stile lampadina che si accende sulla zucca di Archimede Pitagorico. Questo è l’ingrediente più difficile da trovare, puoi essere benedetto dall’arrivo di un’idea oppure no. Penso che si potrebbe uccidere, per una buona idea… Perché se in una storia questo elemento manca, tanto vale leggere l’elenco del telefono! Ad esempio, una svolta importante nella storia della storia di Reginaldo è stata l’idea del nome mancante, della caccia al nome, del corteggiamento delle parole. E devo ringraziare Tonino Benacquista per avermela suggerita: stavo leggendo un suo romanzo, in cui un personaggio si riferisce a un altro chiamandolo “Cane rognosoâ€, quando casualmente la benedetta lampadina si è accesa.

Dall’altra parte, ci sono gli elementi cui si può arrivare con tranquillità, con l’osservazione, il ragionamento, l’associazione di idee. Hai bisogno di dare spessore a un personaggio, e fai quadrare l’irascibilità di tua sorella col naso a punta della compagna di banco di prima liceo – faccio per dire. Scegli tutta una serie di elementi ed episodi coerenti che hai vissuto, letto, immaginato nel corso del tempo. Reginaldo va in biblioteca perché io lavoro in una biblioteca, guarda una vetrina di pasticceria perché io mi fermo sempre a guardarle, legge le insegne dei negozi come faceva Sharik, il protagonista di Cuore di cane di Bulgakov, che ho letto tanti anni fa.

Poi, viene la capacità “tecnica†di usare bene la tua materia prima, mettendo sulla carta parole piacevoli da leggere, magari sorprendenti, comunque con un tono coerente all’oggetto, e col ritmo e la vivacità necessaria a tenere il lettore fermo lì con te. E qui il lettore è giudice supremo.

Infine, c’è la tua energia personale, la motivazione, il coraggio che ti fanno prendere la penna in mano per affrontare la pagina bianca, e più passa il tempo più mi accorgo che non è un elemento così scontato. Io scrivo al computer, in genere di mattina, quando il turno in biblioteca me lo permette. Ho sempre avuto bisogno di perdere un sacco di tempo prima di mettermi al lavoro, di cincischiare per casa rovistando nei cassetti o facendo le coccole ai miei gatti. Una volta riuscivo a diventare “operativa†verso le undici. Noto che il tempo di decompressione purtroppo si sta facendo sempre più lungo: fosse per me, in questo periodo mi metterei al pc alle tre del pomeriggio, ma in genere a quell’ora sono già al lavoro, devo farmi un po’ di violenza… Allora, un bagno caldo può aiutare: se non ti rammollisci troppo, trovo che sia un buon metodo per regredire a una condizione pre-natale in cui la tua mente vaga libera, e se sei fortunato le rotelle cominciano a girare da sole.

 

Quando hai visto le immagini per la prima volta, l’incertezza sull’identità di questo bizzarro cane, ha influenzato la tua trama? Nel senso che anche tu, insieme al cane, eri alla ricerca della sua identità e del suo nome?
No, come ho detto, la personalità del cane è stato un elemento sicuro sin dall’inizio. Ho faticato a trovare tutto il resto! Anche il nome mi è tintinnato subito chiaro forte nella testa.

Come ti è venuto in mente un nome così: “originale e distinto, fantasioso senza essere bizzarro†come Reginaldo? E’ così azzeccato che mi viene il sospetto che il cane di Valerio fosse già Reginaldo ancora prima di avere una storia…
In effetti, sì. A me piace dare nomi agli animali, e a volte dei soprannomi alle persone. In genere vengono adottati anche dagli altri, quindi evidentemente sono azzeccati. Come in genere mi capita, il nome Reginaldo mi è risuonato da solo in mente appena ho guardato i disegni, quasi fosse un’emanazione della sua personalità. Se devo scavare nella memoria, credo che questa idea mi sia stata suggerita dai cartoni animati del draghetto Grisù che guardavo da piccola. Ho subito trovato che le tavole di Valerio avessero un’atmosfera inglese, e Grisù ha per amici una coppia di aristocratici inglesi. Forse sbaglio, ma mi pare che il marito si chiamasse proprio Reginald. E’ stata una catena associativa che è andata a pescare abbastanza lontano

 

I tuoi personaggi, in modi diversi, sono spesso alla ricerca di un’identità (vedi Velluto, storia di un ladro). E’ un tema che ti piace particolarmente? Perché?
Tra i tanti inediti che ho scritto, in effetti, questo tema non è poi così presente. Inconsciamente, devo essere stata influenzata dallo schema già attuato per Velluto: con lui aveva funzionato e allora, nelle mie divagazioni per trovare la strada giusta, ho finito per seguire lo stesso percorso.

Me ne sono resa conto solo a cose fatte. Forse non è bello dirlo, ma è stata una scelta un po’ di comodo… Mettere un personaggio alla ricerca di qualcosa è il modo migliore per farlo muovere, quando devi scrivere una storia “per forzaâ€. E ricercare se stessi fa un bell’effetto sulla carta…

Detto questo, la ricerca di un’identità è un tema che, se si parla di letteratura per l’infanzia, quindi rivolta a individui in formazione, ha un peso notevolissimo. E senza stare a scomodare il Propp, fondamentalmente tutti i personaggi di tutte le storie sono alla ricerca di qualcosa. Da qui a dire che, in fondo in fondo, siamo sempre e comunque alla ricerca di noi stessi, perché le nostre esperienze ci ridefiniscono continuamente, il passo è breve.

 

Hai un’idea precisa di come debba essere un testo dedicato all’infanzia? Ti poni dei limiti o delle regole quando scrivi il testo per un album?
Io scrivo da relativamente poco, e non sono particolarmente “consapevole e strutturataâ€. E’ una domanda che mi pongo anch’io, ma non sono arrivata a conclusioni molto precise.

Di certo, trovo che rispetto alla letteratura “per grandi†il mondo della letteratura per l’infanzia sia molto meno convenzionale, ci puoi entrare con maggiore libertà, con la faccia sporca di cioccolato e le mani sporche di ben peggio. E’ il caos calmo di cui parla Veronesi nel suo romanzo. Quando scrivi un testo per l’infanzia, ti puoi permettere delle libertà stilistiche concesse solo ai futuristi, muggendo come una mucca o spiccicandoti a terra come una goccia d’acqua. Puoi scrivere tutto un libro concentrandoti su un’unica idea – io adoro la sintesi, anche se poi mi capita di essere prolissa. Solo le idee forti possono permettersi di reggere una composizione breve e sintetica, e nella letteratura adulta questa sintesi la trovi solamente in alcune poesie, o magari in racconti troppo brevi per godere di piena stima.

Poi, nelle opere per l’infanzia è fondamentale l’aspetto didattico. Io non sono contraria in linea di principio: credo che voler insegnare ai propri cuccioli sia un atto d’amore naturale. Tutto sta nel farlo con garbo e stile, come dire… E a voler ben guardare, forse anche in opere che non vogliono insegnare proprio niente c’è un intento didattico nascosto: si crea una cosa bella per bambini, come può essere un bel libro, semplicemente perché imparino a godere della bellezza, quindi ad essere felici. Mica sempre si nasce con questo talento.
Personalmente, non mi pongo dei limiti particolari.

Che cosa hai provato quando hai visto le tavole finali del libro? Il nuovo Reginaldo di Valerio corrispondeva al tuo?
La sorpresa è stata relativa, mitigata dal fatto che già conoscevo il suo stile e l’atmosfera generale, avendo lavorato su tre tavole, in origine.

Comunque, no, i suoi disegni non corrispondevano gran che alle mie immaginazioni, penso che statisticamente sia impossibile che avvenga: il gatto era più magro, la biblioteca più piatta…

Valerio Vidali, Senza nome, Topipittori 2008

Però, ad esempio, i tre amici di Reginaldo sono proprio perfettissimi, spiccicati a come li immaginavo!

Valerio Vidali, Senza nome, Topipittori 2008

Lo scarto che c’è tra come mi raffiguro io una mia storia e come questa viene rappresentata mi provoca sempre un’emozione molto forte. Quando vedo delle illustrazioni per la prima volta mi vengono sempre gli occhi lucidi… Non che mi sia capitato così spesso, e non posso dire che l’emozione sia del tutto piacevole, ma vedere concretamente – perché un’illustrazione io la trovo molto concreta – che un’idea tua, nata dalla tua testa, si è comunicata alla testa di qualcun altro, e che questo qualcuno ha proseguito questa idea, l’ha interpretata e ne ha fatto qualcosa di diverso, di personale, io la trovo una grande magia.
Penso che tutte le interpretazioni e le rielaborazioni di qualcosa che crei tu siano fondamentalmente lecite, a condizione che siano fatte in buona fede.

Immagino che in qualche caso le illustrazioni potrebbero non piacermi dal punto di vista estetico, perché com’è naturale non apprezzo tutti gli illustratori, ma finora sono stata decisamente fortunata: i lavori di Valerio, di Luigi Raffaelli e di Antonio Marinoni mi sono piaciuti tutti moltissimo!

Leggi l’intervista a Valerio Vidali…

6 Risposte per “Il “Senza nome” di Silvana D’Angelo: una intervista”

  1. 1 maurizio
    15 Novembre, 2008 at 22:16

    una bellissima intervista, delicata, scanzonata. Un “angelo” in buona fede!

  2. 2 Francesca
    17 Novembre, 2008 at 10:31

    Complimenti a Silvana per il bellissimo testo (mi era piaciuto anche moltissimo Velluto) e grazie alle “figure dei libri” per l’intervista!
    Un abbraccio,
    Francesca

  3. 3 Tullio
    17 Novembre, 2008 at 11:47

    Complimenti a Silvana,
    il testo in realtà non l’ho ancora letto tutto ma ho sfogliato le prime pagine in libreria e sono molto intriganti.
    Complimenti a Valerio le illustrazioni sono veramente bellissime.
    Complimenti ad Anna per l’intervista per niente scontata.
    Grazie.

  4. 4 giovanna
    17 Novembre, 2008 at 16:20

    Spezzo una lancia a favore degli scrittori.
    Nei libri illustrati, per una questione di primo impatto, è gioco forza che siano le immagini a fare la parte del leone. Attenzione, però. Se è difficile trovare buoni illustratori, è decisamente più difficile trovare buoni autori. Parola di editore. E di scrittore…
    La lingua, infatti, è infida: se non sei più che bravo ogni frase rischia la banalità più vieta. La noia più profonda. La vacuità più assoluta. Un testo banale, insomma, è un testo morto. Un cadavere. E un testo cadavere non lo animi nemmeno se sei un bravo illustratore. Lo dico perché a volte ho l’impressione che chi lavora con le immagini sia talmente concentrato su queste da lasciarsi, quasi, sfuggire l’importanza del testo. In certi casi, addirittura, che non sia del tutto in grado di riconoscerne esattamente la qualità. Questo è un errore clamoroso. State all’occhio, illsutratori, se vi capitasse di cadere in questa tentazione…
    Infine: “Chapeau” a Silvana che è una scrittrice di razza.

  5. 5 Francesca
    20 Novembre, 2008 at 11:56

    Sono totalmente d’accordo con Giovanna per quanto riguarda i buoni testi anche se noto un po’ di cattiveria nei confronti degli illustratori. L’illustratore per definizione lavora con il testo, come può non amarlo? Non tenerne conto? Una delle sensazioni più spiacevoli è lavorare e cercare di fare “belle” illustrazioni con “brutti” testi (non sempre si ha la forza e la possibilità di poter accettare solo bei testi).
    Ho letto tempo addietro “la vera storia dei topi pittori” e mi ricordo che ero rimasta un po’ perplessa per alcune frasi sugli illustratori. Detto questo Topi Pittori rimane per me una tra le migliori case editrici italiane.
    Libri bellissimi sia per i testi che per le illustrazioni: “Chapeau†a Topi Pittori, ai suoi scrittori e illustratori allora!
    Un abbraccio e grazie per lo spazio.
    Francesca

  6. 6 giovanna
    20 Novembre, 2008 at 15:39

    Sulla base della mia esperienza di editore dico, forse sbagliando, ma in modo molto onesto, che mi sembra sia più facile che un autore sia curioso verso il lavoro dell’illustratore che viceversa.
    Ma questa è un’opinione assolutamente personale: e non c’è alcuna “cattiveria”. Quanto meno non mi sembra “cattiveria” il termine adatto. Nel senso che non si tratta di un giudizio di merito, quanto di una semplice osservazione.

    Faccio un esempio: Anna parla dei meccanismi che governano i libri illustrati nella loro completezza con grande competenza e sensibilità sia verso i testi che verso le illustrazioni. Ma il suo è davvero un caso speciale: di solito questo non avviene e forse ciò dipende dal fatto che Anna è anche autrice di testi, e quindi padroneggia i due codici con competenza. Molti illustratori penso abbiano col testo un rapporto strumentale. Cioè che lo valutano in relazione a quel che questo gli consente di fare.

    Tempo fa ho partecipato a una sessione di esame in una nota scuola milanese con corso di illustrazione. Agli studenti chiedevo cosa gli fosse piaciuto in particolare del testo scelto da illustrare. La risposta è stata quasi sempre: “L’ho trovato adatto a me.” Se insistevo, notavo che la conoscenza del testo scelto dallo studente era molto superficiale: erano stati scelti alcuni passaggi e questi unicamente in relazione a se stessi. Mancava una comprensione più generale e approfondita del racconto, una relazione con le parole e la dinamica del racconto verbale…

    D’altra parte, noto spessissimo (e questo nella “Vera storia dei Topipittori” è sottolineato) che gli autori che sanno lavorare tenendo presente che un testo avrà delle immagini, sono molto pochi (e questa è una delle ragioni per cui pochissimi sono gli autori capaci di scrivere per quello strano oggetto che è un picture book). In genere chi scrive pensa al testo, convinto che sia il testo quello che “conta”. Punto.
    Ma gli autori che scrivono pensando alle immagini… ecco costoro sono davvero molto interessati alle illustrazioni e al lavoro di chi le fa.