L’importanza del ‘fuori-scena’ nell’immagine
19 Gennaio, 2016Mostro non mangiarmi!, Carl Norac e Carll Cneut, Adelphi edizioni (lo schizzo sotto il libro è mio)
Quando iniziavo a muovere i primi passi come illustratrice, partecipai a un corso con Carll Cneut, a Macerata. Stavo preparando uno storyboard per una casa editrice spagnola e pensai di sottoporlo a Carll per avere consigli. Era il 2003, o giù di lì.
Ricordo che fui molto colpita da alcuni suoi commenti sul ‘fuori scena’.
Mentre spiegava, Carll faceva gesti con la mano intorno al foglio, indicando zone: come se lo spazio vuoto che circondava il foglio fosse uno spazio su cui potevo disegnare, anche se nessuno avrebbe visto nulla.
Ad esempio, in una scena dove il protagonista doveva dire addio a un personaggio secondario, Carll mi disse: «Ma perché non lo tagli un po’ fuori scena? Così anche il lettore avrà la sensazione di perderlo di vista». Geniale.
Non avevo mai pensato, prima di quel giorno, a quanto è importante il fuori-scena quando costruiamo un’immagine.
Qui sopra, potete vedere la scena di cui vi ho parlato in fase di storyboard, qui sotto, il disegno definitivo, come compare nel libro. Il personaggio secondario è stato tagliato fuori scena, ma nessuno penserebbe, guardandolo, che abbia subito un’amputazione. Pensiamo, piuttosto, che continui a esistere oltre il foglio, anche se oltre il foglio non c’è niente.
El caballero Pepino, Carmen Gil e Anna Castagnoli, OQO 2004
In letteratura, il fuori-scena corrisponde al non-detto.
Alla fine del film di Sofia Coppola Lost in translation, nell’ultima scena, quella dell’addio, l’uomo sussurra delle parole nell’orecchio della ragazza, parole che il pubblico non può sentire. Sono le parole più importanti di tutto il film, perché non ce ne sono altre, nel film, che ci informano sui reali sentimenti dei personaggi.
Ma queste parole, rispetto alle orecchie del pubblico, sono state dette fuori-scena. Ricordo che fui molto frustrata quando il film finì, volevo sapere cosa si erano detti! Solo poco dopo pensai, con un sorriso, che in realtà non si erano detti nulla, perché era un film.
Anche nel teatro greco l’azione avveniva fuori scena. Il pubblico non vedeva quello che gli attori del coro, dal palco, sporgendosi verso un altrove immaginario, vedevano e descrivevano con passione.
Questi stratagemmi narrativi hanno un duplice scopo: infiammano la fantasia e la curiosità del pubblico, e gli fanno dimenticare che quello che c’è in scena è finzione.
Suggerire allo spettatore che esiste un fuori-scena significa accrescere l’illusione che quello che c’è in scena sia reale.
In Lacuna, un bellissimo, imprescindibile libro sull’importanza del non-detto e della lacuna in letteratura, Nicola Gardini cita un episodio della Divina Commedia dove Dante riferisce al lettore che c’è stata una conversazione con Virgilio, ma Dante aggiunge che non riporterà cosa è stato detto.
“Così andammo, infino a la lumera,
parlando cose che ‘l tacere è bello ”
(Inferno IV, 103-5)
La dichiarata omissione induce il lettore a credere che ci sia veramente (da qualche parte) quello che non c’è (…) L’illusionismo, per colmo di ironia, fa sì che quel che è intrinsecamente immaginario tragga fondamento di realtà da una mancanza. Ecco una delle principali funzioni della lacuna, scrive Gardini.
In una narrazione, la retorica narrativa è sempre tesa tra due punti: il falso (l’immaginario puro) e il vero (il realismo). Come uditori e spettatori di una storia abbiamo un dannato bisogno di sapere se quello che è raccontato è avvenuto davvero o per finta.
Il grado di realtà dei fatti narrati, infatti, ci indica come dobbiamo porci davanti a quei fatti, e incide sul nostro coinvolgimento emotivo.
Non è lo stesso sapere che qualcuno è morto per finta o che qualcuno è morto per davvero.
Che nel tal posto c’è un vero castello ricoperto di rubini, o che il suddetto castello è stato solo immaginato da qualcuno.
Il lettore de La storia infinita, che in realtà fa parte della storia
Sempre, all’inizio di una storia, ci sono formule retoriche che indicano al lettore come collocarsi davanti alla storia, come ascoltarla.
Espressioni come ‘Tanto tempo fa’ o ‘C’era una volta’ spingono la storia verso uno spazio lontano e mitico, forse vero o forse no.
Espressioni come ‘I fatti di seguito raccontati sono accaduti realmente’ o ‘Vi racconterò cosa ho visto ieri, stento io stesso a crederci…’ riportano la storia in uno spazio che coincide con quello che abitiamo tutti, reale e familiare (anche se la formula usata è solo un trucco retorico, proprio come nelle famose leggende metropolitane).
The Tempest, William Shakespeare e Arthur Rackham
Nel regno dell’immagine, la funzione retorica di queste formule narrative è svolta principalmente da tre elementi:
– lo stile (più o meno realistico. Nell’immagine qui sopra, ad esempio, la scena a colori)
– la composizione (l’immagine è tagliata al vivo fuori dal quadro, o sta tutta dentro il quadro?)
– la cornice (assente o presente; netta o sfumata verso il disegno; più o meno decorativa)
Nell’immagine di Thomas Crane, qui sotto, più cornici portano, a poco a poco, lo sguardo del lettore verso una porta che ci sembra reale.
Il fuori-scena è, in questo caso, oltre la porta chiusa.
(Mille, le note di contrappunto, che giocano e confondere e contraddire questa verticalità dei piani. Come le rondini che sembrano volare reali fuori dalla copertina, o il fiocco giallo del titolo, che entra e esce tra cornicette che dovrebbero essere solo dipinte).
Nel 1400, l’architetto Leon Battista Alberti spiegava che, senza cornice, tagliato al vivo, il quadro diventa “una finestra aperta sul mondo”.
Da allora, il bordo esterno del disegno viene chiamato ‘finestra albertiana’.
Per avere un fuori-scena efficace, infatti, bisogna tagliare l’immagine a vivo.
Qualsiasi cornice rallenta, sbarra o annulla la fusione tra realtà e finzione.
La scelta di mettere o non mettere la cornice dipende dal tono retorico con cui vogliamo ‘raccontare’ la scena.
Fuori scena, c’è il mondo di cui l’immagine è un frammento. Un mondo sconfinato dove tutto può essere e tutto può succedere.
Nell’esempio qui sotto, non c’è mostro più terribile di quello che è tagliato fuori-scena: proprio perché non lo vediamo.
(Carll Cneut è un mostro di bravura del fuori-scena).
Mostro non mangiarmi!, Carl Norac e Carll Cneut, Adelphi edizioni
In quest’altro esempio, tratto da un libro delizioso che si intitola Le jour ou zoe zozota, il testo dice: ‘Yuri vide uno Yeti divorare creudelmente uno yogurt’.
Noi non vediamo lo Yeti, vediamo Yuri che vede lo Yeti.
Lo Yeti, possiamo solo immaginarlo.
Se vedessimo lo Yeti intero, dentro l’immagine, non sentiremmo l’alito di mistero e altrove che percepiamo nell’immagine dove non vediamo lo Yeti.
Le jour où Zoé zozota, Pierre Prat, Le 400 coups, finalista al premio Hans Christian Andersen – IBBY 2016
Guardate come l’impatto del fuori-scena sarebbe ancora più forte e drammatico senza spazio bianco intorno.
(Se non ci fosse la cornicetta di default del blog, lo percepireste ancora più forte).
Anche la composizione gioca con il fuori-scena. In questo bellissimo finale dell’Hansel e Gretel di Lorenzo Mattotti, Gretel attraversa il fiume e va verso la salvezza. Ma dove va?
Il taglio compositivo ammicca a un altrove che ci sembra di poter vedere, oltre i margini del foglio.
Ma se allunghiamo una mano per toccarlo, non esiste.
Al momento di pensare e comporre la vostra immagine sul foglio, non dimenticatevi che il foglio può essere grande quanto il mondo.
Anna Castagnoli
Per approfondimenti:
COINVOLGERE IL LETTORE 1: dire meno, dire poco, nascondere
COINVOLGERE IL LETTORE 2: la posizione del protagonista e quella del lettore
Lacuna. Saggio sul non detto Nicola Gardini L’importanza del non-detto nello storytelling 18,70 € |
19 Gennaio, 2016 at 19:28
Che bel post Anna!
Io ho sempre adorato i fuori scena e chissà perché tendo a stare sempre sui bordi che al centro del foglio.
In ogni caso ricordo una lezione che ancora oggi conservo di Gek Tessaro.
Guardandomi in difficoltà nello scegliere il giusto scorcio da rappresentare mi disse:
“disegna tutto ciò che vorresti; ritaglia un foro rettangolare in un altro foglio a mò di cornice e inquadra ciò che funziona di più”
Da allora, senza volerlo, ho iniziato a capire l’importanza del fuori scena, del tagliato del mondo intorno.
19 Gennaio, 2016 at 19:50
Senza parole, grazie Anna e grazie Andrea
20 Gennaio, 2016 at 13:41
“Al momento di pensare e comporre la vostra immagine sul foglio, non dimenticatevi che IL FOGLIO PUò ESSERE GRANDE QUANTO IL MONDO.”
Anna Castagnoli
Grazie! Qui trovo l’energia che mi aiuterà in questo anno di lavoro.
20 Gennaio, 2016 at 18:48
Interessantissimo, grazie! … Continuiamo ad immaginare, oltre qualsiasi confine.
21 Gennaio, 2016 at 6:33
Sai Anna, è proprio a partire da un tuo corso l’autunno passato che ho iniziato a intuire in modo più chiaro che la questione non è solo disegnare, ma progettare una narrazione con le immagini, imparare un linguaggio di comunicazione… In questo senso leggo queste indicazioni sul fuori-scena: sono grammatica del linguaggio dell’immagine e aiutano a portare il lettore a partecipare a una comunicazione. Se gli lasciamo spazio, lui-il lettore- con la sua intuizione, immaginazione, fantasia conversa con l’immagine, conclude le figure dell’illustratore come si concludono le frasi di un amico in un dialogo. Insomma: il disegno illustrato può essere forse pensato come “due chiacchiere in amicizia col lettore”? A me è capitato di provare questa sensazione leggendo un albo..
21 Gennaio, 2016 at 13:18
grazie Anna, la mia lista di letture si allunga ogni volta che leggo un tuo post!!
Comunque credo che anche un altro testo, che avevi segnalato tempo addietro, “L’invenzione del quadro” sia calzante con questo tema.
25 Gennaio, 2016 at 17:58
Grazie Andrea, Rebecca, Ste e Valeria per i bei commenti!
E sono contenta, Enrica, che il mio corso abbia portato a pensare l’immagine in modo diverso, con uno spazio nuovo, aperto, verso chi guarda.
@Federica:
Sto tenendo in serbo quel libro per un post che sto preparando sulla cornice e l’impaginazione. È vero che anche per il fuori-scena è utilissimo!