Una riflessione personale sull’attentato a Charlie Hebdo
12 Gennaio, 2015The Dead Bird. By Margaret Wise Brown e Remy Charlip, 1958
Sconvolta, come tutti, dal massacro di Charlie Hebdo, non posso riaprire il blog senza fermarmi a riflettere sulla responsabilità che abbiamo noi tutti, e in particolar modo noi che ci occupiamo di cultura dedicata ai bambini, o di bambini, verso quello che è successo.
Non voglio ridurre la complessità e l’enormità di questo attentato ad una dimensione individuale e psicologica, ciò nonostante, è un ricordo personale quello che è sorto durante le ore dell’assedio a Vincennes e Dammartin.
Prima di diventare autrice e illustratrice, sono stata responsabile per qualche anno di un centro che si occupava di dare accoglienza a donne senza dimora, a Genova.
Quando abbiamo aperto il centro ci aspettavamo di ricevere le ‘barbone’. Invece, la maggior parte delle donne che arrivavano, erano ragazze di diciotto anni. Avevano passato l’adolescenza, e spesso l’infanzia, in un qualche istituto statale: diventate maggiorenni, non potevano più essere accudite dallo Stato e arrivavano da noi.
Leggendo la storia dei fratelli Kouachi, rimasti orfani giovanissimi (un educatore che li aveva in carico in un istituto poco dopo che avevano perso la madre, li ha descritti come due ragazzini educati, molto legati tra loro, persino motivati nello studio), ho ripensato alle ospiti del dormitorio che dirigevo, alle loro storie, così simili.
Mi ricordo l’espressione dei loro visi – a tavola, o durante una partita a carte, o parlando di un fatto accaduto durante il giorno –Â quando mettevano da parte, per un attimo, la corazza che li faceva imbronciati, sussiegosi, impenetrabili: una vertigine di paura e solitudine.
Un vuoto siderale di riferimenti, di affetti, di prospettive sulla vita che avevano davanti. Ma anche il bisogno disperato, ormai agli sgoccioli, di potersi ancora fidare di qualcuno. Di poter essere accolte, adottate, viste, riconosciute nella loro unicità .
(A proposito di questa ‘adozione’ mancata e sulle sue conseguenze, vi invito a guardare la bellissima conferenza dello psicanalista Massimo Recalcati intitolata L‘amore malato).
È facile pensare che i fratelli Kouachi e Coulibaly fossero dei terroristi, dei barbari, delle bestie. Lo sono diventati, forse.
Ma è così facile, chiamandoli bestie, terroristi, barbari, metterli in una casella a parte; una casella lontana da noi anni luce; da noi giusti, da noi dalla parte dei giusti, mai razzisti, sempre tolleranti verso i punti di vista e le idee diverse dalla nostra (davvero?).
Più difficile sarebbe avere tra le mani una loro fotografia a quattro, cinque o sei anni. Incontrare i loro occhi di bambini: gonfi, come tutti gli occhi dei bambini, di domande, di sete di capire, di bisogno di affetto specifico, non generico. Di affetto per quella faccia lì e non un’altra.
Ho provato dolore per l’iperbole impazzita della vita di quei tre bambini: Chérif, Said, Amedy, che si è portata dietro così tante vite inestimabilmente preziose, la loro inclusa. Dolore e tardiva impotenza.
“Finché un uomo ti incontra e non si riconosce”, scriveva Fabrizio De André. Se solo qualcuno li avesse riconosciuti in tempo.
Anna Castagnoli