Ricordando Sendak: Sergio Ruzzier racconta il suo incontro con Maurice Sendak
24 Maggio, 2012(Pubblicherò la terza parte delle mie riflessioni sulla scrittura la prossima settimana). Oggi pubblico questo prezioso frammento di memoria di Sergio Ruzzier (avevamo ospitato una sua intervista qui), che nel 2011 è stato ospite di Maurice Sendak alla The Sendak Fellowship. Sergio Ruzzier, che da molti anni vive e insegna illustrazione a New York, racconta l’influenza di Sendak su tutto il suo lavoro fino all’ultimo saluto del maestro all’ospedale, poche settimane fa. L’articolo è stato scritto per il bollettino della Society of Children’s Book Writers and Illustrators e gentilemente tradotto da Sergio Ruzzier per i lettori di LeFiguredeiLibri.
Questo disegno l’ho fatto mentre ero da Sendak. Gli era piaciuto l’originale, un disegno a biro che avevo fatto in quarta elementare per un tema in classe, cosi’ gli ho regalato questa copia (Sergio Ruzzier).
Tra i primissimi libri che ho mai toccato c’erano i cinque volumetti del Piccolo Orsacchiotto, scritti da Else Holmelund Minarik e illustrati da Maurice Sendak. L’episodio dolceamaro di un Piccolo Orsacchiotto che crede che sua madre si sia dimenticata del suo compleanno, mi affascinava in modo particolare. La storia è commovente e raccontata con grazia, ma la cosa che mi è entrata nella pancia per rimanerci per sempre, è la perfezione di quei disegni a china. La delusione che si legge sul muso di Piccolo Orsacchiotto, le diverse personalità di Gallina, Anitra e Gatto, la malinconia dell’umile minestra di compleanno: tutto questo è illuminato dalla penna di Sendak con grande sensibilità . L’ultima volta che ho dato un’occhiata a quei disegni è stata parecchi anni fa, ma se chiudo gli occhi posso ancora vederli molto chiaramente.
Little Bear, Â Else Holmelund Minarik e Maurice Sendak
Da adolescente ho cominciato a immaginarmi un futuro da narratore visivo di qualche tipo. Ho guardato qua e lĂ , sperando di trovare la giusta ispirazione. Ho incontrato Bosch, Alfred Kubin, Elzie C. Segar, George Herriman, Willhelm Busch e altri artisti in diversi settori.
Non avendo ricevuto alcuna educazione artistica degna di tal nome, questi artisti e le loro opere sono stati fondamentali nel mio progresso artistico, nel bene o nel male. Ma quando mi sedevo al tavolo a imparare a usare il mio strumento preferito, il pennino, tenevo sempre a portata di sguardo i disegni di Sendak.
In Italia, dove sono nato e cresciuto, la maggior parte dei libri di Sendak non sono altrettanto conosciuti come negli Stati Uniti o altrove. Solamente dopo essermi trasferito a New York, a metà degli anni novanta, mi sono reso pienamente conto del valore e dell’ampiezza del suo lavoro. Ho cominciato a collezionare i suoi libri, che mi han tenuto compagnia mentre tentavo di costruirmi una carriera.
Un giorno di febbraio del 2011, aprendo la cassetta delle lettere per ripulirla dalle solite bollette e annunci pubblicitari, ho trovato una cosa curiosa: una lettera. Era indirizzata a me e aveva come mittente The Sendak Fellowship. L’ho aperta, immaginando di trovarci una richiesta di donazione per una istituzione benefica di qualche tipo. Si trattava invece di un invito a passare quattro settimane nel Connecticut, in una casa accanto a quella di Maurice Sendak, in autunno. Mi avrebbero dato uno studio dove lavorare ai miei progetti, senza nessun obbligo di produrre niente di particolare. Inoltre, e soprattutto, avrei avuto l’occasione di conoscere Maurice Sendak. Maurice Sendak! Ho accettato, ma avevo paura.
L’idea che Sendak conoscesse i miei libri così bene da volermi invitare a casa sua mi faceva sentire un po’ a disagio. Ho sempre avuto il terrore che un giorno avrei sentito bussare alla mia porta: uno sconosciuto in divisa, un Poliziotto dell’Arte, mi avrebbe comunicato ufficialmente che, mancandomi le giuste credenziali, non avevo l’idoneità per svolgere questa professione. E avrei dovuto consegnare la mia penna e la china, gli acquarelli e la carta.
Una cosa del genere potrebbe succedere benissimo, e temevo che fosse venuto il giorno: lo stesso Sendak mi avrebbe dato la comunicazione ufficiale.
Alcuni mesi prima dell’inizio di questo soggiorno, ho saputo i nomi dei miei futuri compagni: Denise Saldutti, Frann Preston-Gannon e Ali Bahrampour. Conoscevo molto bene l’albo illustrato di Bahrampour Otto: The Story of a Mirror, un libro molto bello e originale. Ho pensato: se anche lui è invitato, allora forse non c’è motivo di aver paura. Dopo aver pubblicato quel suo primo libro, Bahrampour era sparito dal mondo dei libri per bambini, per cui non potevano certo chiedergli di andarsene.
Otto, The story of a mirror, Ali Bahrampour.
Ho cominciato a pensare che la Sendak Fellowship fosse una comunità di recupero per narratori visivi. E in effetti per me un po’ lo è stato.
Durante il mio soggiorno non c’era niente che non fosse incantevole: l’atmosfera conviviale; la straordinaria gentilezza e efficienza di Lynn Caponera e Dona McAdams, che organizzano il programma; il mio studio, con le finestre che guardano nel bosco popolato da uccelli, rane, rospi, tartarughe, cervi, scoiattoli e dei lombrichi particolarmente lunghi e grassi. In quello studio ho potuto disegnare e pensare in libertà , senza scadenze o pressioni di alcun tipo, semplicemente per puro piacere.
La ragione principale per cui disegno e racconto storie è per ritrovarmi in quello stato di grazia e intimo isolamento che si raggiunge quando si è completamente immersi nella propria creazione. Sappiamo bene che spesso è solo uno stato illusorio, ma vale comunque la pena raggiungerlo. In quel mondo che si sta costruendo si vuole essere sinceri, soprattutto con se stessi.
Quando si fanno libri per bambini, ci sono così tanti ostacoli, tabù, cose che non è permesso dire o mostrare. Ci si abitua a questo pensiero, lo si accetta come dato di fatto, ci si censura. Ci si dimentica il motivo per cui si fa questo mestiere. E si producono libri che sono meno buoni di come potrebbero essere. Sendak mi ha ricordato che può non essere così. E’ una persona molto affettuosa, dolce e spiritosa, ma anche molto onesta. Mi ha detto quello che gli piaceva nei miei libri e anche quello che non gli piaceva. Trovava che fossi troppo docile in certe mie scelte, troppo timido. “Devi avere più coraggio”, mi diceva. Ho provato a dare la colpa agli editori, e lui ha ammesso che oggi, almeno negli Stati Uniti, l’ambiente non è altrettanto favorevole e incoraggiante rispetto a quaranta o cinquanta anni fa. Però questa non dev’essere una scusa, mi ha detto. Ha assolutamente ragione, e lo sapevo già . Ma chiacchierare con lui mentre passeggiavamo nei suoi boschi col suo cane Herman, mi ha fatto ricordare il motivo per cui disegno e racconto storie.
Ho scritto questo pezzo per il bollettino della Society of Children’s Book Writers and Illustrators. Pochi giorni dopo la pubblicazione, ho saputo che Maurice si era sentito male, e che era all’ospedale. Niente di grave, si sarebbe ripreso. Poi, durante la convalescenza, si è sentito male di nuovo. Questa volta era molto più grave. Talmente grave che anche se l’avessero salvato non sarebbe più stato in grado di disegnare, camminare, forse neanche di leggere, parlare o deglutire. Così ha fatto capire che voleva che lo lasciassero morire. Sono andato a trovarlo all’ospedale il giorno prima della sua ultima notte. Dormiva tranquillamente e mi piace ricordarlo così.
S.R.