Le immagini tantriche di Rajahstan e una riflessione sull’arte astratta
30 Gennaio, 2012Immagine di contemplazione della dottrina Tantra, India
Rothko? Kandinsky? Malevich? No, le prime immagini astratte di Rajahstan (India) risalgono al 1600. Queste forme astratte, semplici e misteriose insieme, servivano alla pratica tantrica della meditazione. Dipinte su carta, appese con una puntina alla parete, queste immagini erano riservate agli iniziati e tenute segrete a chi non praticava il culto. La maggior parte di queste immagini è conosciuta in occidente grazie al poeta Frank André Jamme che negli anni 80 del secolo scorso fece molti viaggi in India alla ricerca di nuovi esemplari. Lo ossessionava e lo ammaliava l’incredibile somiglianza di queste forme con quelle dell’arte astratta del ‘900.
Le immagini qui sopra sono dipinti di contemplazione della dottrina Tantra
Che cosa è l’arte astratta?
Quando le forme e i colori puri dell’astrattismo hanno fatto il loro ingresso nell’illustrazione per bambini (Munari, Komagata, Pacovska, per citare i più noti), molti lettori hanno storto il naso, così come molti fruitori d’arte avevano storto il naso quando Cezanne e Picasso avevano incominciato a liberare l’arte dai suoi debiti al realismo pittorico.
E se oggi Munari e Komagata sono per lo più accettati come maestri indiscussi, c’è ancora molta resistenza quando nei libri per bambini il mondo rassicurante del figurativo viene abbandonato a vantaggio di forme più astratte: “sì bellissimo, ma non è per bambini”, si dice, oppure, con una punta di sarcasmo: “è per figli di architetti”.
Katsumi Komagata
Una volta ho letto un libro illustrato ad un bambino di pochi mesi. La sua attenzione era inequivocabilmente attratta dalla pagina dove compariva il testo. Era chiaro, dal tempo che dedicava alla parte testuale, dal movimento delle pupille, che quelle piccole macchie nere lo affascinavano come una danza di insetti. Lui (non io) stava fruendo della bellezza dei caratteri, del loro rapporto col bianco, lui (non io) sapeva esplorarne gli anfratti, i vuoti, i pieni, i movimenti.
Sam Wiston
Immagino di essere un uomo o ragazzo iniziato alla contemplazione delle immagini di Rajahstan. Eccomi seduto davanti a una parete bianca dove su un foglio di carta è ritagliato un quadrato bianco, il quadrato bianco è contenuto da un finissimo profilo rosso (o è il resto del foglio, dello spazio, della parete, della stanza, della casa, di tutta l’India, dell’universo intero che sono contenuti dal profilo rosso?). Li osservo.
Quel quadrato bianco sembra stare lì come il simbolo di qualcosa d’altro: la sua semplicità , il suo mutismo, sono eloquenti. Ma che cosa dicono? Li capisco, eppure non posso tradurre a parole quello che capisco. Sento che da quel quadrato si libera una forza potente, ne sono quasi abbagliato. Devo liberare la mia mente da ogni condizionamento. Devo ritornare ad essere come il neonato che vede le forme per la prima volta.
Non ero molto distante da questo tipo di pensieri quando all’età di 19 anni, in un museo di Monaco, avvenne la mia conversione all’arte astratta. Lo confesso, fino ad allora avevo snobbato gran parte dell’arte contemporanea. Mi piaceva l’impressionismo, con le sue luci soffici e i suoi papaveri, mi piacevano il periodo blu e quello rosa di Picasso (ma dopo? Che orrore!), mi piaceva Munch, per quelle belle fanciulle bianche sullo sfondo di chiari di luna e pini. Ma che non mi si dicesse che Fontana con il suo taglio su una tela era un artista e non un furbo! Non mi si dicesse che un quadro di Kandinsky era arte quanto un quadro di Vermeer o Piero della Francesca!
E poi, ecco, Monaco. Fu un quadro di Yves Klein. Era gigantesco. Riempiva mezza sala del museo. Era tutto blu o quasi (e quel “quasi” era ipnotico). Vi entrai dentro e non potei più uscirne. Ero travolta da tutto quel blu cobalto. Non ero più il critico con le lunette sul naso che dice questa non è arte, ero una bambina caduta in una piscina di luce e colore e non pensavo ad altro che a sguazzare e godere della sensazione dell’acqua e della luce sulla pelle.
Y.Kkein Large Blue Anthropometry [ANT 105] , c. 1960
Ma questo non era che l’inizio. Qualche minuto dopo sentii che qualcosa mutava all”interno dei miei pensieri. Un profondo senso di ordine e calma si erano sostituiti al brusio dei pensieri. Qualcosa come un’onda che proveniva dal quadro stava lavando via cumuli di disordine e detriti. La mia fronte si era distesa. Sentivo che dal quadro proveniva un suono, una vibrazione che riconoscevo come mia, assolutamente mia, personale come il più intimo dei miei pensieri. Mi riconoscevo attraverso il quadro. Sentivo che io e il quadro eravamo felici di ritrovarci e di comunicare in un linguaggio nostro, antico, primitivo, perfetto. Avevo ritrovato la musica dell’Essere.
Yves Klein, IKB 191, 1962
Da allora, il mio modo di guardare l’arte, è cambiato. Non è più il contenuto simbolico di un quadro (la scena che vi è dipinta, il soggetto) che vedo, quando guardo un quadro o un’immagine, ma quello che vi sta dietro. Mi sembra che l’arte astratta non abbia fatto che mettere a nudo, svelare, la filigrana segreta che compone ogni opera d’arte. Filamenti di una semplicità perfetta, corde di un universo la cui complessità poggia su poche e semplicissime note cantanti.
(Tantra in sanscrito significa “telaio” o “trama”).
L’anno scorso, alla grande retrospettiva sull’astrattismo tenutasi al Moma di New York, ne ho avuto la conferma. Avevo appena letto una legenda in cui si spiegava come Jackson Pollock iniziò a dipingere così solo dopo la seconda guerra mondiale: dopo l’olocausto della guerra (e di quella guerra in particolare) egli sentì che non c’erano più parole per esprimersi, non c’era più niente che potesse essere detto con le forme e gli strumenti che erano stati utilizzati fino a quel momento. Con quali parole, con quali pennellate si poteva dire il Male?
Dopo aver letto quella legenda mi sono ritrovata davanti alla sua Echo: Number 25, (1951). Due metri e mezzo per altrettanti metri di assoluta disperazione e bellezza. Eccolo: il disastro del Male. Eccola: la strozzata, disperata domanda dell’uomo davanti al Male e alla Morte – Perché? Eccola: la risposta di Dio a Giobbe – la sovrumana potenza del creato che trascina via con sé in un vortice di luce il Male e il Bello, senza distinguerli. Eccola: la bellezza che senza giustificare il Male, lo assolve.
Lo sentivo senza ombra di dubbio: Echo: Number 25 diceva ESATTAMENTE la stessa cosa della Porta dell’Inferno di Rodin, e della Caduta degli angeli ribelli di Bruegel. Quelle tre opere sul Male, erano la stessa opera, la stessa intuizione.
(Mi spiace non potervi dare che un’ombra della potenza di queste opere attraverso la loro riproduzione).
Echo: Number 25, (1951)
La porta dell’inferno di Auguste Rodin (1880 -1917)
La caduta degli angeli ribelli, Bruegel il vecchio, 1562
Particolari: da sinistra a destra: Bruegel 1562, Rodin 1880, Pollock 1951
Sul blog Mienkeeper qualcuno ha notato la stessa similitudine tra Echo: Number 25 e Dance of death di Otto Dix (1924).
Dance of death, Otto Dix, 1924
a sinistra Otto Dix, 1924, a destra Jackson Pollock, 1951
E voi cosa sentite davanti all’arte astratta? Avete avuto anche voi una conversione?
Se c’è ancora qualcuno fra voi che non ama l’arte astratta, c’è una strada per avviciniarsi a capirla: vedere le opere in originale, non riprodotte, e provare a liberarsi, davanti ad esse, di ogni cosa si sa sull’arte. E’ terribile come tutta l’educazione scolastica all’arte sia mirata ad allontanare la gente dall’arte, dalle pratiche tantriche e peccaminose della contemplazione pura dell’arte.
Vi consiglio anche la lettura di Lo spirituale nell’arte di Kandinsky.
Ringrazio Florizelle del blog Le Divan Fumoir Bohémien per avermi fatto scoprire le pitture di Rajahstan. Le ritrovate tutte nel libro Tantra Song di André Jamme, affinacate dalle sue poesie.
Tantra Song Franck Andre Jamme Poesie di A. Jamme e immagini indiane di contemplazione tantrica 35,99 Euro |
Lo spirituale nell’arte Vasilij Kandinskij 15,30 Euro |