Bologna Book Fair 2009, intervista ai giurati: Beatrice Masini

4 Maggio, 2009

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Beatrice Masini

Dopo il dibattito sulla Mostra Illustratori 2009, e una lunga carrellata di interviste agli illustratori ascoltiamo finalmente il punto di vista di uno dei membri della giuria che ha selezionato la Mostra Illustratori 2009: Beatrice Masini, scrittrice, responsabile editoriale Fabbri e Rizzoli.

Non è ideale come inizio per un’intervista a un giurato ma devo confessare che la Mostra Illustratori di quest’anno non mi è piaciuta molto. Molte tavole erano graziose ma non avevano, trovo, la forza di raccontare una storia. Questo sentimento è stato condiviso da altri addetti al settore.
Ho avuto la sensazione che mancasse un messaggio chiaro da parte della giuria. La mia domanda è:  questo messaggio esiste? Al di là dello scegliere una tavola per i suoi meriti, una giuria cerca di indicare delle direzioni stilistiche? Una corrente?

Una giuria non è un coro concorde di persone, è un insieme di personalità molto diverse. Che queste diversità affiorino nelle scelte è fatale. Che queste diversità diano segnali contrastanti è ovvio. Ma non credo che si tratti di incoerenza. Le scelte sono solo uno specchio della varietà delle proposte. E non penso che il compito della giuria fosse o sia di dare un messaggio. Credo sia impossibile, poi, individuare ed enfatizzare, nelle opere prese in considerazione, un filone, una tendenza, una corrente, con duemilasettecento partecipanti, ciascuno teso, con risultati più o meno efficaci, a sottolineare la propria voce, il proprio codice. Al massimo si possono riconoscere le scuole. Ma a cosa serve? Che esercizio è? Può esistere una scuola molto seguita in cui però fanno spicco per originalità una o due voci, e il resto è brusio di sottofondo.

Uno dei criteri-guida nella scelta comunque è stato proprio la capacità delle tavole di dire una storia – l’inizio, una scena, una semplice idea, una battuta. Attenzione, però: l’illustrazione può vivere anche senza parole, e molti album riusciti ce lo dicono, ma pretendere che dica sempre tutto da sola è eccessivo. Insomma, il rapporto di scambio e contrasto con la parola non va dimenticato. Il che vuol dire che molte volte bisogna immaginare la parola non detta, più che quello che la tavola cerca di dirci da sola. Immaginare il matrimonio fra le parole che non ci sono e il frammento di storia che le figure stanno dicendo.

Quali sono i criteri principali che avete utilizzato per scegliere? Ho letto sul catalogo che non eravate perfettamente d’accordo su questi criteri. Ci sono stati dibattiti interessanti?
Il primo criterio è stato la qualità tecnica del lavoro. Non si può pensare che un illustratore, affermato o di scuola, non padroneggi le basi della tecnica e della composizione. Quindi le prime a essere scartate sono state le tavole manchevoli da questo punto di vista, e direi che in questa fase non c’è stata discordia tra i giurati. Da qui in poi è entrato in scena il gusto. C’è chi ama le tecniche d’incisione e chi no; chi ama le tavole luminose e chi quelle scure. Spesso chi era poco incline a promuovere un’immagine è stato convinto dalle ragioni degli altri, sempre argomentate con molta precisione e passione; qualche volta no, e ha prevalso la maggioranza. Tutti i dibattiti sono stati interessanti – e ce ne sono stati molti – proprio per la diversità di ruoli e mestieri coinvolti.

Come si svolge la scelta durante la selezione? Si mettono da parte i disegni scelti? Quanto tempo ci vuole ad elaborare un giudizio finale?
La cosa più semplice, è la prima, è escludere i disegni che proprio non funzionano. Ma a tutti viene data una seconda possibilità. Da qui in poi le fasi di visione sono molto numerose. Prima si procede individualmente, e poi insieme. Abbiamo impiegato due giorni e mezzo di lavoro ad arrivare al giudizio finale.

Abbiamo notato nella Mostra molti stili simili, alcune volte degli stili-copia di altri illustratori (penso a Iku Dekune e a come ha influenzato il Giappone). Dove si colloca secondo lei la frontiera tra corrente artistica e copia?

Me lo chiedo tutte le volte che riconosco un segnale – un modo di disegnare gli occhi, o le bocche, o di applicare una tecnica – che improvvisamente dilaga e diventa fastidiosamente di moda. Ma gridare al plagio è un gioco facile. Un’illustratrice molto imitata è stata Giulia Orecchia; oggi è la volta di Octavia Monaco, di AnnaLaura Cantone. Tutti noi, in qualunque campo, abbiamo dei modelli, e cercare di imitarli può essere una buona tecnica di lavoro. Ma dovrebbe essere questo, un esercizio di stile, e non trasformarsi nell’assunzione di uno stile. Istintivamente io rifuggo dalle copie troppo copie, mi infastidiscono, penso che chi le ha fatte non abbia ancora trovato una sua strada e mi dispiace per lui.

In qualche parola una definizione di illustrazione?
Un racconto per immagini. Con o senza parole. Che funzioni anche senza parole. E dica altro rispetto alle parole, quando ci sono.

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