Il mondo a cubetti: abecedari fotografici

Alphabet, Gaston Karquel, con testi di Pauline David, Les Editions du Compas (1930 -40?)

Nell’accademia dell’isola di Lagado del viaggio di Gulliver, si proponeva l’espediente di una lingua universale:

…se le parole altro non sono che nomi per le cose, sarebbe stato molto più conveniente che gli uomini si fossero portati appresso quelle cose di cui intendevano parlare per qualsiasi faccenda. (…) questo progetto di parlare con le cose, (…) presenta solo questo inconveniente per cui, se un uomo ha da discutere di faccende complicate, è costretto a portarsi sulle spalle un sacco di cose, a meno che possa permettersi il lusso di farsi aiutare da servitori stracarichi. (…) Questa invenzione offriva anche un altro vantaggio, perché avrebbe potuto essere considerata come una lingua universale, compresa in tutte le nazioni civili che usano più o meno gli stessi tipi di utensili, il cui impiego sarebbe stato familiare ad ognuno.”

Swift era ironico, ovviamente, ma con l’intelligenza che permea tutto il suo libro aveva, come si suol dire, messo il dito nella piaga: la frattura tra linguaggio e mondo.
Per alleggerire i sacchi del linguaggio e della scrittura, i Fenici, che nel loro perigrinare mercantile avevano il problema di commericare merci che in ogni porto avevano un nome diverso, ebbero un’idea brillante: ridussero le cose a cubetti, inventarono l’alfa-beto.
I libri per bambini nascono proprio come abecedari, nel vano tentativo di ristabilire l’impossibile consonanza tra mondo e parola e offrirla al bambino.

Nonostante la fotografia abiti i libri per bambini fin dai suoi esordi (vedi questo post), la moda degli abecedari fotografici esplode nel 1930, in linea con il desiderio delle Avanguardie europee di trovare il cubetto perfetto del mondo, il modulo oggettivo, democratico, semplice, con cui poter ricostruire qualsiasi cosa, da un elettrodomestico a un palazzo architettonico a una città.

Emmanuel Sougez, Alphabet, Paris: Éditions Antoine Roche 1932

Alphabet, del fotografo Emmanuel Sougez, va in questa direzione anche nell’immagine di copertina, che fotografa cubi di lettere; all’interno, le parole sono declinate in tre lingue diverse: la lettera di inizio è il jolly – il cubetto magico – che può trovare il suo senso come capolettera in lingue diverse.
Trovate una analisi interessante di questo libro su questo blog, in francese.

Emmanuel Sougez, Alphabet, Paris: Éditions Antoine Roche 1932

Lo stesso anno, 1932, Sougez pubblica Regarde! con le edizioni H. Jonquières. Un imagier accompagnato da brevi testi che si ispira al successi americani di Mary e Edward Steichen (The first picture book e The second picture book).

Escono a ruota i libri di Pierda, pseudonimo del fotografo e illustratore Pierre Portelette, tre alfabeti illustrati con la fotografia. Ne bougeons plus…, con una bambina fotografa in copertina, Delagrave 1934, L’alphabet de Dzim et Boum e, nel 1935, Alphabet, sempre per Delagrave.

La copertina di Alphabet, con la copertina riprodotta sulla copertina che i bambini tengono in mano, è da capogiro: rimanda all’infinito gioco tra parole e mondo. Quale dei due nasce prima? Ci sarà un punto finale, ultimo, dove il linguaggio possa atterrare sul duro di un sasso, di una cosa senza nome?
Il libro all’interno presenta parole come “Immensità”, “Arrivo”.
Sempre in francese, trovate un lungo approfondimento online sugli alfabeti fotografici di Pierda su La joie par les livres.

Per gli appassionati di rimandi e infiniti giochi alla Borges, il paesino giocattolo fotografato da Pierda per la lettera F è un gioco disegnato dell’illustratore André Hellé, a sua volta illustratore di un abecedario (info qui).

Nel ’43, il maresciallo Pétain, che di lì a poco si mise a governare la Francia da Vichy insieme ai nazisti, ebbe un’idea luminosa come quella dei fenici, ma dal lato oscuro della luce: perché non fare un abecedario con se stesso come protagonista e insegnare ai bambini che il mondo è quello che dove lui è un eroe? Il libro fu distribuito in tutte le scuole della nazione e presentava ad ogni pagina il maresciallo stesso. Un genio della propaganda.

Abécédaire (du Maréchal Pétain), Bureau de Documentation du Chef de l’Eta, 1943

Senz’altro più allegro è l’Alphabet di Gaston Karquel (collega di Capa), con testi di Pauline David. Non sono riuscita a datarlo. Un negoziante online che lo vende a 900 euro lo data 1930, altri siti lo datano 1940, altri ancora 1950. Per i colori della copertina sarei propensa a credere che il commerciante sopracitato lo abbia ringiovanito di una decina d’anni, ma per le fotografie interne, molte delle quali ispirate all’idea futurista della città, dei neon e delle fabbriche come luoghi di incanto, avrebbe senso nel 1930. Se qualcuno risolve il mistero me lo scriva.

Alphabet, Gaston Karquel, con testi di Pauline David, Les Editions du Compas (1930 -40?)

Concludo questa carrellata con il bellissimo abecedario di Marcel Marceau, del 1971, dove il mimo interpreta a gesti la lettera oppure il significato più sottile della parola, in un alternarsi di giochi semantici, e

Marcel Marceau, The Marcel Marceau alphabet book, Doubleday, 1971

 

con il vincitore della medaglia Caldecott 1996: Alphabet City, di Stephen T. Johnson, dove finalmente le lettere ritornano a essere oggetti nel grande sacco del mondo.

Anna Castagnoli

Alphabet City di Stephen T. Johnson, Viking Children’s Books, 1996

Note:
– Da cercare anche A is for Art, sempre di Stephen T. Johnson, un abecedario con quadri astratti.
– Se conoscete altri begli abbecedari antichi e moderni, scrivete i titoli nei commenti.
– Da leggere su questo blog: Esattamente come gli atomi”, l’alfabeto è un sistema complesso di Anna Martinucci, e La fotografia nei libri per bambini: l’immagine tra realtà e metafora, di Anna Castagnoli.


La fotografia nei libri per bambini: l’immagine tra realtà e metafora

di Anna Castagnoli

Robert Doisenau, L’enfant et la colombe, Chêne, 1978

Qualche giorno fa, al Museo della Fotografia Contemporanea Mufoco di Cisenello Balsamo (Milano) ho tenuto una lunga conferenza sulla fotografia nei libri per bambini.
Le due curatrici del museo avevano frequentato il corso Come funziona  l’album illustrato da Spazio BK e mi avevano poi contattata all’interno di un ciclo di conferenze pensate per educare all’immagine e ai suoi significati.
La libreria Spazio BK ha accompagnato l’evento con un banchetto zeppo di bellissimi libri, vintage e moderni, illustrati con la fotografia. Insieme a BK , abbiamo costruito una bibliografia di un centinaio di titoli, trasformata in parte in fondo per la biblioteca del museo.


I 60 posti disponibili si sono riempiti in poche ore dall’annuncio dell’incontro, prova di quanto vivo sia l’interesse per la fotografia nei libri illustrati (si veda anche la bella mostra romana curata dall’associazione Cartastraccia insieme ad Alessandro Dandini De Sylva, di cui si parla in questo post).

Sono partita nella mia ricerca da un presupposto particolare: non amo i libri per bambini illustrati con la fotografia.
La ricerca, di cui vi do qualche traccia in questo post, mi ha permesso di fare un pochino pace con questa antipatia, ma soprattutto di capire meglio quale ne sia la causa.
Intanto, condividevo con molti (non ho trovato eccezioni sul web) il pensiero che il solo fatto che ci sia la fotografia in un libro per bambini, significhi qualcosa di preciso.
Etichettato, come in un museo delle scienze, con il nome di una qualche rara specie diversa per DNA da quella dell’illustrazione, il libro illustrato con la fotografia genera tutta una schiera di reazioni, entusiastiche o diffidenti: “Si sa che i bambini amano tantissimo i libri con la fotografia”, “si sa che i bambini hanno difficoltà a capire le fotografie”, etc.
Posizioni spesso diametralmente opposte di cui non ho trovato nessun supporto scientifico.
Ho iniziato così a mettere ordine nei pensieri. Prima di affrontare la ricerca, dovevo capire cosa fosse la fotografia: se davvero fosse diversa, in modo ontologico, dalla pittura e in cosa.
Ci sono fotografie che potrebbero essere scambiate per quadri e quadri che sono identici a fotografie (soprattutto oggi, con l’avvento del digitale).
Allora, quale è la differenza?

A sinistra Degas, a destra una fotografia di Robert Demachy

La prima cosa che mi è venuta in mente è che la fotografia può mentire, un quadro, no.
Ne ho trovato conferma nel bellissimo libro Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag (lettura fondamentale): se diciamo che un quadro è falso, ci riferiamo alla sua attribuzione, se diciamo di una fotografia che è falsa, affermiamo che quello che sta inquadrando non è successo o che è accaduto in modo diverso da come il fotografo ce lo vuole presentare.
Questo punto va a favore di una radicale differenza.
La pittura, per quanto realista, è sempre espressione di un’immaginazione. La fotografia, inventa fino a un certo punto: qualcosa del reale viene davvero catturato.
Insomma, un quadro non può mentire, la fotografia, sì. Ma mentire rispetto a cosa?

Cottingley fairies, 1917

Esemplare è il caso delle fate di Cottingley.
Nel 1917, arrivarono alla direzione di un giornale inglese alcune fotografie accompagnate da una lettera. Due ragazzine sostenevano di aver fotografato le fate e allegavano alcune fotografie.
Il giornale pensò bene di affidare l’inchiesta a Arthur Conan Doyle, l’autore di Sherlock Holmes. Doyle fece analizzare le fotografie: gli esperti affermarono che erano autentiche, non c’era fotomontaggio né trucco.
Nonostante il suo fiuto da detective, Doyle delegò la visita alle due ragazze a un assistente, che partì per la campagna inglese. L’assistente aveva il cuore di un ragazzo, il desiderio che le fate esistessero davvero influenzò tutta la sua indagine. Trovò che le fanciulle fossero troppo giovani e ingenue per aver architettato una bufala di quella portata. Per farla breve, le foto vennero dichiarate autentiche da Doyle e metà Inghilterra credette davvero che le fate fossero state fotografate.
Le ragazze aspettarono la morte di Doyle per dire la verità, cioè che avevano disegnato e ritagliato delle figurine su carta e le avevano fotografate nell’erba.
Si può dire, in questo caso, che la macchina fotografica non aveva colto la realtà? No, era la messa in scena ad essere menzognera, la macchina fotografica aveva fatto il suo dovere: documentare quello che vedeva.

Ho scovato un divertente libro per bambini della stessa epoca dove la fotografia mente, ma in un modo ancora diverso: The Six-Inch Admiral,  di C. H. Park.

C. H. Park, The Six-Inch Admiral, 1901

È la storia un po’ nonsense di una bambina che rompe un vaso pieno di lacrime, che uno zio le ha portato dalla Cina.
Grazie al potere di queste lacrime, riesce a diventare piccola (tipo Alice) ed entrare nel regno delle bambole. Una serie di foto-collage illustrano il libro.
Qui siamo davanti a una menzogna di tipo diverso: la fotografia viene ritoccata per dare l’illusione di una realtà che non è mai esistita.
Una menzogna che solo la fotografia può compiere, in questo caso poetica e innocente, ma pericolosissima quando sfruttata da un regime politico. (Oggi questo tema è particolarmente in auge, si laggano le riflessoni sulla post-verità).

C. H. Park, The Six-Inch Admiral, 1901

Nonostante queste possibilità menzognere o illusorie della fotografia, la fotografia è stata quasi sempre usata nei libri per bambini in senso realistico.
Cioè non come oggetto artistico, ma come strumento, in un certo senso, di propaganda del reale.
È questa la ragione per la quale non la amo.
Rari sono gli esempi di fotografia artistica o sperimentale (a mio gusto sublimi), dove la fotografia diventa opera d’arte non per quello che rappresenta, ma per come si esprime.

Uno dei più begli esempi che ho trovato è un lavoro di Oskar Nerlinger, del 1928: una serie di fotografie di gelatine di diversa trasparenza, affiancate dai versi poetici della moglie Alice Lex, anche loro stampati attraverso le gelatine. Testo e immagine diventano entrambi immagine pittorica, ma resa reale dal fatto che sono catturati dalla macchina fotografica.
(Non so cosa darei per avere questo libro: purtroppo, dalle mie ricerche, pare non sia mai stato edito).

Oskar e Alice Lex Nerlinger (Fotografie probabilmente esposte alla Mostra Film und foto, Stuttgart 1929)

Se eccezioni al realismo fotografico ci sono state (soprattutto negli anni ’70 e nel 2000), sono spesso accompagnate dalla pittura o da inserti grafici, come se la fotografia, da sola, non fosse in grado si essere surreale, onirica, pittorica o astratta (cosa non vera).

Perché? Quanto la fatale commistione tra pedagogia e letteratura per bambini ha influenzato queste scelte?

Anche senza allontanarci dal realismo fotografico, inciampiamo in una rete di concetti ben poco chiari: la fotografia fotografa il reale, bene, ma cosa è il reale?
È quello che vediamo, è quello che sentiamo? È come mettiamo in scena la vita? È il balletto sociale a cui siamo stati educati?
Scherer & H. Engler, i due fotografi tedeschi che illustrarono quello che viene considerato uno dei primi libri per bambini fotografici, Ein Tag aus dem Kinderleben (Dresda, 1877), ritrassero delle bambine messe nelle stesse pose di Mademoiselle Lili, un libro del genere “bambina modello, birichina solo il giusto” che all’epoca andava per la maggiore.
La rappresentazione illustrata dell’infanzia, nei giornali e nei libri, dettava la sua legge di buone maniere anche nella realtà, e veniva poi ripresa dalla fotografia!

M. Scherer & H. Engler, Ein Tag aus dem Kinderleben, Dresda, 1877 (qui sopra la copertina dell’edizione danese).

Nei primi decenni della nascita della fotografia, a lato di questi bambini modello fotografati in stile vittoriano, c’era la complessità di una realtà infantile poverissima e sfruttata.
Charles Dickens, con i suoi romanzi, contribuì notevolmente a sensibilizzare l’opinione pubblica.
(Vi ricordo che in quell’epoca i bambini lavoravano a partire dai 3/4 anni, sette giorni su sette, dodici ore al giorno e che oggi abbiamo solo spostato il problema geograficamente, per non averlo davanti agli occhi).
Prendiamo come esempio di “fotografia che dice il vero” due fotografi sociali di quegli anni, entrambi mossi dal desiderio di sensibilizzare la borghesia a votare leggi contro lo sfruttamento minorile (le prime battaglie furono fatte per concedere ai bambini un giorno di pausa a settimana).
Jacob Riis, fotografo e sociologo danese, ritrae i bambini lavoratori con uno sguardo, appunto, alla Dickens (suo autore di formazione).
Il messaggio è la forma: per denunciare la verità dello sfruttamento infantile, Riis usa il realismo fotografico.
Non che quei bambini ritratti non siano reali, ma il modo in cui Riis li ritrae, afferma qualcosa sul modo di porsi davanti a quella realtà: la realtà è così, abbiate compassione (ogni compassione, come ricorda la Sontag, implica una distanza).

Jacob Riis, 1890 c.

Guardate ora due fotografie di una famosa serie di ritratti di Lewis Hine, anche lui impegnato fotografo sociale americano di inizio ‘900.

Hine sovrappone più lastre con ritratti diversi dello stesso bambino. Quello che vuole denunciare è la mancanza di identità di questi bambini: sono mostri trasfigurati dalla fatica.
Il messaggio è la forma. Hine non dice: abbiate compassione prima di dire le preghiere e andare a dormire, Hine dice: siatene inorriditi, è questo il prezzo che la vostra vita borghese fa pagare loro, una destrutturazione completa di ogni possibile identità.

Lewis Hine, 1913 (trovate informazioni su questo lavoro pioniere e purtroppo mai pubblicato, qui).

Due modi diversi di raccontare la stessa realtà.
Non fatevi ingannare dalla fotografia. La fotografia non parla della realtà. La fotografia parla sempre di una certa rappresentazione della realtà. La realtà così come è, se mai è esistita, è troppo densa di significati perché una qualsiasi fotografia possa tradurla interamente.

Sulla base di questa considerazione, ho analizzato decine di libri fotografici per bambini, alla ricerca dei modi in cui la fotografia è stata usata. Mi sono accorta che la fotografia è soprattutto usata per dire “la realtà è così” a scopo didattico (mostrare le cose), e spesso in concomitanza con progetti editoriali politici e sociali (mostrare una realtà esemplare).
Esempio, i libri di fotografie di bambini di periferia o di campagna, affidati a fotografi del calibro di Kertesz, Bresson e Doisneau da editori di sinistra quali La Guilde du Livre e Plon, tra gli anni ’30 e ’50.
Un preciso intento di idealizzare e promuovere una nuova immagine di infanzia (poi arrivata fino a noi), in antitesi con quella post-vittoriana e borghese (oltre all’intento di tirare su il morale alla popolazione tra le due guerre).

Plon e La Guilde du Livre, 1933 – 50 (Fotografia umanista)
Robert Doisneau (testo di Blaise Cendrars), La banlieue de Paris, La guilde du livre, 1949

Oppure, due decenni, più tardi, le collane I bambini del mondo, sullo stesso filone retorico della mostra  The Family of Man, curata da Edwuard Steichen(1), che tanto clamore fece al museo di Arte Moderna di New York, nel 1955. Mostra di oltre 500 fotografie messe insieme per dire: tutti i popoli del mondo sono amici.

Dominique Darbois, Enfants du monde, Nathan, 1952
Catalogo della mostra The Family of Man, 1955
The family of man, Museum of Modern Art, New York 1955

Ora, senza nulla togliere al prezioso intento politico di queste collane, sappiamo che sia Doisneau che Kertesz che Bresson mettevano in posa i loro soggetti, così come sappiamo l’ipocrisia di una borghesia americana profondamente razzista che face ore di coda per dire di aver visto The Family of Man (come giustamente denuncia la Sontag).

Così come sappiamo che la serie “I bambini del mondo”, un vero e proprio successo editoriale di cui tutti noi bambini degli ‘anni 70 abbiamo avuto in mano un esemplare, per quanto affascinante, descriveva la allegra giornata tipo di un/una bambina/o di paesi poveri o esotici, ben lontana dalla realtà di fame e miseria dei veri bambini del mondo.

Andando ancora avanti negli anni, altri esempi di fotografia usata per dire (o pretendere di dire) il reale: i libri didattici di Emme edizioni (Giochi d’acqua, Giochi di terra) o le esperienze editoriali dei maestri Célestin Freinet e Mario Lodi, con La bibliothèque de travail, poi Biblioteca di lavoro (trovate un approfondimento qui). Giornalini scolastici o giochi nei quali la fotografia aveva il compito di dire che il reale non ha bisogno di aggiunte, soprattutto quando a osservarla è un bambino (la realtà è meravigliosa), oppure di informare (anche tu devi sapere come stanno le cose).

O ancora il realismo programmatico della collana di Einaudi Tanti bambini, curata da Munari, che decretava la fine dei libri zeppi di fate e maghi (ne avevo parlato qui).

Emme edizioni, 1977

Non è questo lo spazio per terminare la storia dell’illustrazione nei libri bambini che ho tracciato durante la conferenza, e sicuramente ho preso scorciatoie che non rendono giustizia alla complessità della storia dei libri fotografici per l’infanzia, ma è l’impressione che ho avuto e mi interessa condividerla con voi: la fotografia è stata spesso usata con un intento politico, oltre che pedagogico.

Ma questo non è il solo modo nel quale la si può usare, ed è stata una scoperta anche per me: la fotografia non è una certa specie animale, ma una quantità enorme di animali diversi, non necessariamente reali.
Se mi concedete un raffronto sfasato di un paio di decenni per illustrarvi questo concetto, metto a confronto le fotografie di due libri.
Il primo appartiene alla serie “bambini del mondo” ed è dall’autrice di Pippi Calzelunghe, Astrid Lindgren (ne scrisse diversi di quel genere, affiancata dalla fotografa Anna Riwkin-Brick): Randi Lives in Norway. La storia descrive, con poco spazio alla fantasia ma molto alla poesia del reale, la giornata di un bambino norvegese. Il secondo è la fiaba di Cappuccetto Rosso, il testo è di Perrault, le fotografie di Sarah Moon.

Astrid Lindgren, Anna Riwkin-Brick, Randi Lives in Norway, 1966
Sarah Moon, Le Petit Chaperon Rouge,  Grasset, 1983

Osservandoli, ci accorgiamo che la fotografia è usata in due modi lontani tra loro quanto le renne e gli unicorni.
Sarah Moon sceglie il bianco e nero per un maggior effetto drammatico, accentua i contrasti e introduce lo sfocato per dare un sapore fiabesco alle sue scene. Anna Riwkin-Brick, al contrario, fotografa i bambini norvegesi senza effetti artistici (anche se in bianco e nero, forse non per scelta ma per ragioni economiche), per dire: i bambini norvegesi sono così, questa è la realtà.
La messa in pagina delle immagini contribuisce, in un caso, al realismo (vediamo il quadro netto delle foto appoggiate sulla pagina, due in una doppia pagina, il testo prende molto spazio), nel secondo, all’illusione fiabesca (immagine intera a doppia pagina, testo ai margini).

Cercherò di trovare il tempo, nei prossimi mesi, di postarvi altri contenuti di questa lunga conferenza.
È stato un viaggio affascinante che non smette di interrogarmi. Come punto fermo mi resta che quando diciamo “libri illustrati con la fotografia” non stiamo dicendo quasi nulla.
Le domande da farsi davanti a un libro per bambini fotografico sono: come l’autore/artista sta usando la fotografia? Per dire cosa? I bambini capiranno che ogni rappresentazione del reale non è altro che una parte della verità? O che persino le fate possono essere reali, se ci crediamo? E gli adulti?

Anna Castagnoli

Pierda (Pierre Portelette), Alphabet, Delagrave 1933

Nota 1:
Edward Steichen è anche il fotografo dei due imagier fotografici degli anni ’30: The first picture book (di cui potete trovare una recensione qui) e The second picture book. Nel secondo libro, Steichen contestualizzava gli oggetti presenti in The first picture book inserendoli nelle mani dei bambini (i bambini, però, erano scontornati su fondi neutri, neri o grigi, diventando essi stessi, in un certo senso, oggetti).

Per approfondire:
Susan Sontag, Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi 2004
Susan Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, 2003
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi 2003
Egle Becchi e Dominique Julia:  Storia dell’infanzia. Dal Settecento a oggi. Volume  II, Laterza
Il blog Miniphlit, interamente dedicato ai libri fotografici per bambini


Gli album di Père Castor Patrimonio dell’Unesco

“Il bambino deve scoprire la poesia del reale.”
Paul Faucher

Nathalie Parain, Je fais mes masques, il primo Album di Père Castor, 1931

Dal 2017 i libri di Père Castor sono diventati Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco, insieme a una fitta collezione di appunti, maquettes, corrispondenze, interviste e disegni originali raccolti e conservati dopo la morte di Paul Faucher, il fondatore di questa meravigliosa e rivoluzionaria casa editrice francese.

La nascita della casa editrice Père Castor – Flammarion

 Paul Faucher nasce a Pougues-les-Eaux (Nièvre) nel 1898. Diventerà uno dei più grandi editori francesi, fonderà una scuola e si farà promotore, in Francia, di tutte le idee pedagogiche dell’Éducation Nouvelle.

Paul Faucher nella sua scuola

Ecco la sua storia.
Alla fine della prima guerra mondiale, viene assunto per fare un bilancio dei macchinari delle fabbriche francesi che sono state bombardate.
Impara, così, il funzionamento di tutte le tecniche industriali possibili: macchinari per stampare, per fare la carta, per cucire, macchine per stampe tipografiche e litografiche.
Il suo lavoro è così meticoloso che lo assumono come direttore commerciale di una fabbrica di viti e bulloni. Ma il suo destino è un altro. Appassionato lettore, trova un annuncio sul giornale: le edizioni Flammarion cercano un apprendista libraio per una delle loro librerie.
Faucher lascia il prestigioso posto di direttore (un posto eccezionale per un ragazzo di poco più di vent’anni) e inizia la sua formazione di libraio. Il suo talento è tale che Flammarion lo manda prima a Lione poi a Le Havre a riorganizzare due delle sue più importanti librerie.
A Le Havre, Faucher fa conoscenza del movimento dell’Éducation Nouvelles.

Nathalie Parain, Faites votre marché, Père Castor 1932 (oggi riedito da MeMo)

La Grande guerra aveva lasciato un enorme numero di orfani, di cui la società doveva occuparsi. L’Éducation Nouvelle (in Italia: Movimento dell’Educazione Nuova) ripartiva dallo studio dello sviluppo del bambino su una base scientifica, con l’intento di formare un essere umano nuovo, pacifista, capace di evitare che  il disastro della guerra potesse ripetersi.

Una classe di František Bakulé

La Ligue internationale pour l’Éducation Nouvelle (LIEN) viene creata nel 1921 e vede coinvolti maestri, filosofi e pedagoghi di molte nazioni, Faucher tra loro.
Nel 1927 i maggiori rappresentanti di questo movimento (Bakule per la Cecoslovacchia, Montessori per l’Italia, Steiner-Waldorf per la Germania, Célestin e Élise Freinet per la Francia, Ferrière per la Svizzera), provenienti da tutta Europa, si riuniscono a Locarno per un convegno di tre giorni. Paul Faucher è presente.
Il congresso viene aperto con il canto del coro dei bambini dell’Istituto di František Bakulé, un pedagogo cecoslovacco che si occupava di bambini con problemi psichiatrici e fisici, di orfani o ragazzi ripudiati dalla scuola, con risultati sorprendenti.
La commozione per quel canto e le idee promosse al congresso lo entusiasmano: apre una sezione francese della Ligue e porta il coro di Bakulé in Francia (fonte).
Dopo il congresso, indeciso se diventare pedagogo o editore, opta per la fondazione di una collana all’interno di Flammarion: Père Castor (Papà Castoro).
All’Istituto di Bakulé, incontra la pedagoga Lida Durdikova, che nel 1933 diventerà sua moglie e collaboratrice; sarà anche autrice, insieme a Paul, di molti libri della collezione.
Insieme alla moglie, fonderanno più tardi anche una scuola sperimentale, dove testare i libri della collezione.

Alcuni album di Père Castor degli anni ’40/’50

Lo scopo della casa editrice è strettamente pedagogico.
Faucher produce libri che invitano il bambino a farsi attore della sua stessa formazione: libri da tagliare e colorare, libri-gioco per manipolare materiali (ritagliare, cucire, incollare, disegnare, costruire), libri per muoversi (danzare, giocare), o ancora libri per scoprire il gusto dell’esplorazione e dell’osservazione della natura.
Insieme all’équipe di pedagoghi di cui si circonda, ha l’idea di libri progettati per fasce di età: testi e immagini devono essere adatti alle diverse fasi di sviluppo del bambino; idea che accompagna ancora oggi la produzione editoriale per l’infanzia.

Ascoltate cosa affermava Faucher rispetto all’uso della fotografia nei suoi album:

“Non penso che la fotografia possa sostituirsi alla pittura o al disegno  per  bambini, ma può essere estremamente utile per alcuni gruppi di età: lascia ai bambini l’opportunità di vedere le cose come sono fatte e fare confronti tra diversi aspetti della loro apparenza”.
Citato in Three Centuries of Children’s Books in Europe, Bettina Hürlimann, Oxford University Press, 1967

Nathalie Parain, Je découpe, Père Castor 1931 (oggi edito da MeMo)

Ogni libro, in fase di creazione, veniva testato su gruppi di bambini. Un pedagogo attento e discreto prendeva appunti sulle loro reazioni e i loro commenti.
Ogni passaggio complicato o non capito veniva soppresso.
(Personalmente, condivido solo in parte l’idea che il libro debba essere interamente comprensibile al bambino. Anche le immagini sono un linguaggio. È importante che il bambino possa anche osservare immagini complesse. Altrimenti, è come rivolgersi a lui, tutto il tempo, in un baby talk semplice e ben scandito, senza mai confrontarlo con la complessità della lingua adulta).

Illustrazioni originali di “Ah ! La belle journée” di Hélène Guertik, archivi Père Castor

Rispetto alle immagini, Faucher fa sue le idee del Costruttivismo, la corrente artistica e architettonica che animava l’Europa di quegli anni.
Lo stesso nome della casa editrice Père Castor (Papà Castoro) rimanda a un animale costruttore.

Fondamento di questa corrente era la soppressione di una estetica ottocentesca, fine a se stessa, densa di inutile decoratività stilistica (gli orpelli dell’Art Nouveau).
La nuova estetica doveva essere funzionale ai bisogni dell’uomo, democratica e non elitaria. Nel caso di Père Castor, adattata ai bisogni del bambino.
Il libri di Père Castor saranno tutti a buon mercato, per permettere a qualsiasi famiglia di acquistarli.

Nathalie Parain, Je découpe, Père Castor 1931 (oggi edito da MeMo)

Faucher si circonda dei migliori artisti europei e russi emigrati a Parigi e li invita a portare la loro arte nell’illustrazione (Nathalie Parain, Hélène Guertik, Alexandre Chemetov, Georges Tcherkessof, Feodor Rojankovsky, per citarne alcuni).
Nascono libri dove le immagini sono moduli semplici come il quadrato o il cerchio. L’Astrattismo, il Suprematismo, il rosso e il nero della rivoluzione russa si trasformano in animali e bambini dalle forme depurate, scontornate su fondi omogenei e semplici. Disegni a misura di bambino. È una rivoluzione editoriale rivolta all’infanzia (anche se non esclusiva ma in opera in altre parti d’Europa, soprattutto in Germania e in Russia).
Il bambino poteva costruire con questi moduli semplici e colorati quello che la sua immaginazione gli suggeriva.
Come afferma Faucher in una intervista (qui):
Il bambino deve scoprire la poesia del reale.

Nathalie Parain, Je découpe, Père Castor 1931 (oggi edito da MeMo)
El Lissitzky, ‘Beat the Whites with the Red Wedge!’, 1919

La collezione di Père Castor, nata nel 1931, composta da 80 titoli nel 1939 e da 320 alla morte di Paul Faucher, nel 1967, è tutt’ora edita (e riedita) da Flammarion e da MeMo.
Spero che questo post vi abbia messo la curiosità di approfondire il lavoro di questo rivoluzionario editore.

Anna Castagnoli

Per approfondire:
*
Il documentario radio prodotto da France Culture su Paul Faucher, con interviste al figlio e diversi collaboratori, lo potete ascoltare gratuitamente qui: La Fabrique de l’Histoire.
*Il centro documentario Mèdiatheque intercommunale de Père Castor, a Meuzac, vicino a Tolouse, curato dal figlio François Faucher, dove sono raccolti tutti i libri, le maquette preparatorie, gli scritti e la corrispondenza di Faucher; il centro è tutt’oggi attivo con mostre e laboratori per bambini.
*Révolution École de Joanna Grudzinska (ARTE)
*Gli atti del convegno Paul Faucher (1898-1967) : un Nivernais inventeur de l’album moderne : actes du colloque de Pougues-les-Eaux, 20 et 21 novembre 1998, Conseil général de la Nièvre, 1999 (purtroppo difficili da trovare su ebay o amazon).

 


L’arte di mettere in ordine (creativamente!)

Venerdì prossimo (19 gennaio) terrò una conferenza al Museo della Fotografia Contemporanea Mfuoco di Milano. Per l’occasione, ho fatto una lunga ricerca sui libri fotografici destinati ai bambini dai 4 ai 12 anni (tema dell’incontro), perché fino a qualche mese fa ne sapevo poco o nulla.
Nei prossimi mesi vi posterò qualche chicca che ho trovato e alcune riflessioni.
Oggi vi posto alcune immagini di un libro che trovo delizioso e che ha fatto letteralmente impazzire le mie nipotine, a cui l’ho regalato: The art of clean up, di Ursus Wehrli.

Il libro, senza testo, funziona così: nella pagina di sinistra presenta una fotografia, in quella di destra, tutti gli elementi che componevano l’oggetto (o il paseaggio) messi in ordine.
La cosa divertente del libro è scoprire quanto non avevamo mai prestato vera attenzione a tutte le parti di cui è composta una scena!

The art of clean up, Ursus Wehrli

Quando ero bambina, nella mia fantasia onnipotente, cercavo sempre di immaginare quanto grande sarebbe stata la montagna di pesci se tutti fossero saltati fuori dalla porzione di mare che stavo guardando, oppure, quanto sarebbe stata lunga la fila di funghi, se tutti quelli presenti nel bosco dove stavo camminando si fossero allineati. L’idea di questo libro mi ha ricordato quel modo di pensare, tipico del pensiero infantile, ma anche così vicino al pensiero creativo, che è sempre analitico prima di passare all’azione.


Disegnare il movimento: dall’età della pietra all’illustrazione

Quando nel 1877 Eadweard Muybridge  presentò al mondo le prime serie di fotografie sul movimento animale, gli artisti contemporanei, non senza un certo imbarazzo, si resero conto che fino a quel momento avevano sbagliato modo di disegnare i cavalli in corsa.

Eadweard Muybridge 

Il calssico cavallo disegnato a gambe tese, detto in inglese “Flying gallop”, nella realtà, non era mai esistito. Durante la corsa il cavallo non protende mai in avanti le due zampe anteriori allo stesso tempo.

Baronet, George Stubbs, 1794. Yale Center for British Art, Paul Mellon Collection, USA

Che ridere. Altro che osservazione dal vero! Gli artisti avevano sempre copiato il modo di disegnare di altri artisti, tramandando, di secolo in secolo, gravissimi errori anatomici.

Cina, Dinastia Tang, 618-907 d.C.

Qualche giorno fa ho visto un bellissimo documentario: Quando Homo Sapiens faceva il suo cinema (“Quand Homo Sapiens faisait son cinéma”, su Arte) e sono rimasta basita: i nostri antenati Sapiens sapevano rappresentare il movimento animale con molto più rigore anatomico, precisione e cura di tutti gli artisti che sono venuti dopo di loro!


Gli studiosi Pascal Cuissot e Marc Azéma, muniti di carta carbone e pile, si sono addentrati nelle più belle grotte affrescate di Portogallo, Spagna, Francia, per cercare prove di una teoria affascinante: l’uomo Sapiens aveva già inventato il cinema! Cioè, quella che Azéma chiama la scomposizione del movimento (décomposition du mouvement) per immagini successive.

Potete vedere due esempi nelle immagini qui sotto, tratti dalle grotte di Maxange e di Chauvet, in Francia.
Per molto tempo si era pensato che i diversi segni per rappresentare le gambe fossero errori o approssimazioni dell’incisisore preistorico. Grazie al lavoro metodico di ricerca di Azéma, oggi sappiamo che quei segni erano voluti: servivano a dare una sensazione più viva, realistica e corretta del movimento animale.

Qui sotto un fregio su osso di circa 30.000 anni fa, proveniente dalla Grotte de la Vache, Musée National des Antiquités Nationales: il leone è inciso sul fregio in posizioni successive. Non sono diversi animali, è lo stesso!

Un altro ricercatore, solleticato dalle ricerche di Azéma, ha scoperto il senso di alcuni cerchi in osso primitivi che, fino a qualche anno fa, non si sapeva bene a che cosa potessero servire.
Intrecciando un cordino al disco, il disco si mette a girare presentando in veloce successione un animale vivo e poi morto.
Il busto dell’animale, nelle due facce del cerchio, è disegnato nella stessa identica posizione, per permettere un miglior effetto di trasformazione stroboscopica: solo le zampe si muovono.


Alla fine del documentario, non si può che essere d’accordo con la famosa affermazione di Pablo Picasso: “Dopo Altamira tutto è decadenza“.

Alle intuizioni grafiche dei nostri antenati Sapiens, poi riscoperte e utilizzate dall’arte del ‘900 (pensate al Futurismo e al Cubismo), i bambini ci arrivano da soli, molto spontaneamente. Quando mio nipote Martin a 6 anni disegnò davanti ai miei occhi un uccello con tre zampe, gli chiesi quante zampe avessero gli uccelli e mi rispose: « Ma due!». Insomma, non era un errore anatomico, era la volontà lucidissima di disegnare in sequenza diversi momenti ravvicinati, per creare un maggiore effetto dinamico.

Martin, uccello in volo, 6 anni

Qui sotto il disegno di alcuni uomini primitivi di un’altra bambina mia amica, Lilie, 5 anni (le frecce sono più degli uomini in scena, è la stessa freccia in momenti diversi?).

Lilie, 5 anni

E qui due disegni con esempi moderni di scomposizione di movimento, di Giacomo Balla e di Duchamp.

Giacomo Balla, Dynamism of a dog on a leash, 1912 (c) Albright-Knox Art Gallery, Buffalo, NY
Duchamp, Uomo che scende le scale, 1912

L’arte per eccellenza che si è impossessata di queste tecniche di rappresentazione è quella del fumetto.

Roland Töpffer

Il disegnatore tedesco Roland Töpffer (1799-1846), precursore e inventore del fumetto, aveva capito che più le vignette (e quindi lo stesso personaggio riprodotto) sono ravvicinate, più si ottiene un effetto stroboscopico.
Le vignette ravvicinate dei fumetti, giustapposte sulla stessa pagina, servono a questo.

Little Nemo, Winsor McCay, 1910 c.
Maurice Sendak, In the Night Kitchen, 1970

Spesso il fumetto si serve anche della scomposizione del movimento in sequenze successive senza vignette che ne separino i tempi, per ottenere un effetto di estrema accellerazione, come nei casi del panico o di una fuga a gambe levate.

Topolino, Walt Disney, 1940 c.

Nonostante la scomposizione del movimento in sequenze successive ravvicinate  sia una modo di rappresentazione così vicino a quello dei bambini che disegnano, dei nostri antenati Sapiens, del cinema, dell’arte moderna e del fumetto, nell’illustrazione per bambini i casi di movimento dissociato sono rari.
Pare che, all’opposto, il linguaggio dell’illustrazione si sia sviluppato per isolare ad ogni pagina un solo gesto, rallentando il movimento dei personaggi.
Bisogna girare la pagina per trovare la sequenza del movimento, e spesso, tra un gesto e il successivo, è passato molto tempo.
Qui sotto tre pagine di Alors?, di Kitty Crowther, un capolavoro di tensione narrativa e di rappresentazione del movimento.
La scena è sempre la stessa, come a teatro, solo i personaggi si muovono, pagina dopo pagina.
L’effetto non è veloce, è come rallentato,  perché la distanza tra i gesti  non è di pochi istanti o secondi, ma di minuti o forse ore.
La luce che viene dalla finestra di destra e a poco a poco si inscurisce è il solo elemento che dà informazioni precise sul tempo: indica che tutta la storia è avvenuta nell’arco di un’intera giornata, dalla mattina alla sera.
(Le prime di immagini sono in sequenza, la terza è quasi alla fine del libro).

Kitty Crowther, Alors?, Pastel

Eppure, l’illustrazione è un’arte nata e sviluppatasi nello stesso periodo del fumetto e delle Avanguardie artistiche.
Sarei curiosa di indagare meglio perché è restata così fedele a una rappresentazione unitaria, statica, “classica” in senso rinascimentale, della realtà.

Il modo di rappresentare il tempo e il movimento nei libri illustrati ha forse un rapporto con l’idea di realtà che vogliamo offrire ai bambini? Cerchiamo nei libri illustrati, nella loro lentezza rassicurante, un’unità di tempo e azione per essere rassicurati noi, e rassicurare i bambini a nostra volta, sull’unità e sulla solidità della realtà?
O perché pensiamo che il bambino non possa capire la scomposizione di un movimento nel disegno, e lo legga al primo grado, come se il personaggio avesse più gambe e più braccia?
O semplicemente perché ci piace che ci sia un luogo, da qualche parte, dove il tempo scorre lento?

Beatrice Alemagna, Jo singe graçon, Autrement jeunesse, 2010

Personalmente, sono proprio questa lentezza del movimento e immobilità dell’immagine che amo nell’illustrazione per bambini: mi danno il tempo di pensare, di esplorare la scena, di immaginare. Sensazione che non provo quando leggo i fumetti o guardo un film.
Anna Castagnoli

ps: in un prossimo post vi posterò esempi di scomposizione del movimento nella stessa illustrazione, le eccezioni a quanto detto sopra ci sono, soprattutto negli ultimi anni.

Per approfondire:
Quand Homo Sapiens faisait son cinéma (ARTE), potete vederlo in streaming QUI, per pochi euro. Il documentario approfondisce molti altri sistemi dei nostri antenati di fare “cinema”.
The Cave of Forgotten Dreamsche di Werner Herzog, acquistabile su iTune + una recensione del documentario sul blog dei Topipittori.
Un interessante approfondimento sugli errori nel disegno del cavallo in corsa lo trovate a questo link.
Il mio articolo: David Hockney: fissare il mondo fluttuante.


Tutti a Cremona per la mostra Tapirulan! Ci sarò anch’io

Quest’anno per la prima volta sarò anche io a Cremona per la festa del concorso Tapirulan:
Sabato 2 dicembre inaugura la mostra CIAO, quella di Giulia Pastorino e Tony Wolff, ci saranno le premiazioni e proseguiremo la domenica con altri eventi.
Non vedo l’ora! Chi prende un treno e si aggrega?

Insieme ai membri della giuria, presieduti dall’illustratore Tony Wolff, abbiamo selezionato 48 illustrazioni tra gli 850 lavori in concorso (potete vederli tutti qui).

Complimenti ai finalisti! Trovate l’elenco dei nomi in fondo al post e potete divertirvi a scegliere i vostri preferiti per il Premio Popolare.
Vorrei dire a chi non è stato selezionato di non pensare che la sua tavola non andasse bene, ci son state tante discussioni e confronti e non è stato per nulla facile decidere.
Grazie a tutti per aver partecipato.

Giulia Pastorino, vincitrice dell’edizione 2016

PROGRAMMA MOSTRA E PREMIAZIONI TAPIRULAN, CREMONA
Sabato 2 dicembre
Ore 16

Nella sede Tapirulan, Corso XX Settembre 22, verrà inaugurata la mostra di Giulia Pastorino,vincitrice della passata edizione.
Ore 17
N
elle sale comunali di Santa Maria della Pietà, Piazza Giovanni XXIII 1, si svolgerà la premiazione e l’inaugurazione della mostra CIAO, con i 48 illustratori selezionati (elenco qui, potete votare per il voto Popolare), selezionati tra 850, insieme alla sezione antologica dedicata a Tony Wolf, ospite speciale e presidente di giuria di questa XII edizione.
Potrete visitare la mostra fino al 28 gennaio 2017, e successivamente a Genova-Nervi (Galleria nei Parchi) fino a giugno 2018.

Domenica 3 dicembre
Ore 11
Sempre a Santa Maria della Pietà, un incontro più intimo, dedicato soprattutto agli autori presenti e a Tony Wolf.
Ore 15:30
Anna Castagnoli presenterà il Manuale dell’illustratore nella sede di Tapirulan, Corso XX Settembre 22.

PREMI
Tra i 48 selezionati verranno scelti i 12 autori pubblicati sul calendario e il vincitore del primo premio di 2000 euro, che verrà nominato il giorno stesso della premiazione.
Il Premio Popolare (500 euro) verrà assegnato ad uno degli autori sotto elencati al termine delle votazioni online.
Le votazioni sono aperte da oggi lunedì 27 novembre 2017 e si chiuderanno giovedì 30 novembre 2017 a mezzanotte. Ringraziamo tutti i partecipanti!

ILLUSTRATORI SELEZIONATI

Maria Attianese, Peppo Bianchessi, Davide Bonazzi, Ying-Hsiu Chen, Ece Ciftci, Andrea Dalla Barba, Cristina Damiani, Andy Robert Davies, Andrea De Luca, Marco De Masi, Angel De Pedro, Oscar Diodoro, Laurent Ferrante, Chiara Ghigliazza, Anna Grimal, Francesco Guarnaccia, Gerardo Gutierrez, Stefania Infante, Pauline Kebuck, Dowon Kwon, Chiara Lanzieri, Daniele Kong, Rosanna Merklin, Nick Ogonosky, Giada Ottone, Roberta Palazzolo, Alice Piaggio, Cristina Pieropan, Anna Pini, Giulia Piras, Claudia Plescia, Camille Pomerlo, Marco Quadri, Chiara Raineri, Natascha Rosenberg, Martina Sarritzu, Giovanni Scarduelli, Jacopo Schiavo, Victoria Semykina, Marco Spadari, Ariadna Sysoeva, Luca Tagliafico, Ilaria Urbinati, Daniele Vanzo, João Vaz de Carvalho, Lucilla Vecchiarino, Luyi Wang, Carola Zerbone.

VOTATE QUI, fino al 30 novembre a mezzanotte per il Premio Popolare.