Il nome misterioso delle cose. Tre ‘imagier’

Nei corsi di illustrazione si consiglia sempre di non dire, con le immagini, la stessa cosa che dice il testo con le parole, per non essere banali.
Fanno eccezione a questo suggerimento gli imagier, quei libri, spesso destinati ai bambini piccoli, in cui si insegna, semplicemente, il nome delle cose.
Ma proprio quando il nome è accanto alla cosa, il linguaggio svela tutta la sua enigmatica imprecisione. Il nome non arriva mai a ricoprire tutta la superficie dell’oggetto, avanza sempre qualcosa che il linguaggio non riesce a nominare. D’altro canto, sentiamo che il nome rimanda a molto altro che non vediamo nell’oggetto rappresentato (categorie, concetti, gradi e somiglianze).
In questa crepa tra nome e immagine si apre lo spazio della poesia.
La poesia è ciò che non trova posto nella logica binaria che lega il linguaggio al mondo.
Oggi vi parlo di tre ‘quasi’ imagier che investigano, ognuno a suo modo, la crepa tra linguaggio e mondo: Toutes choses avec lesquelles… di Gaia Stella (Hélium), Quando il sole si sveglia, di Giovanna Zoboli e Philip Giordano (Topipittori) e El arbol de las cosas di María José Ferrada e Miguel Pang Ly, tutti e tre bellissimi.

TOUTES CHOSES AVEC LESQUELLES…
di Gaia Stella

Gaia Stella, Toutes choses avec lesquelles…, Hélium 2015

In ogni doppia pagina di Toutes choses avec lesquelles… (Tutte le cose con cui…) le cose sono raggruppate sotto un titolo che ne determina la categoria di appartenenza.
Che le cose possano essere raggruppate in funzione di alcuni criteri – uso, somiglianza, funzione –  è ciò che facilita la funzione allegorica e metaforica del  linguaggio. In Le parole e le cose Michel Foucault ci ricorda che l’alternativa a questo sistema sarebbe quella di avere un nome per ogni singola cosa del mondo, indipendentemente dalla sua forma, dimensione, colore, funzione, etc: una biblioteca di nomi infinita, alla Borges.

Gaia Stella, Toutes choses avec lesquelles…, Hélium 2015

Nel libro di Gaia Stella, le categorie sono scelte da un gatto, che è testimone e voce narrante di tutte le cose presentate. La sua selezione è ‘miciosa’: Tutte le cose che scaldano; Tutte le cose che si trovano in cucina; Tutte le cose che fanno luce; Tutte le cose sulle quali mi arrampico; Tutte le cose che mi fanno restare fuori casa... Ad esempio, nel cilindro di ‘Tutte le cose con cui non vedo il tempo passare, cadono: il fuoco di un caminetto, una televisione, un fratello, una sorella, delle riviste, un biliardo, una chitarra… Nella categoria Cose che scaldano, troviamo un caminetto e una mamma.

Gaia Stella, Toutes choses avec lesquelles…, Hélium 2015

A ricordarci che il mondo, per essere ordinato, necessita un punto di vista; ma perché quest’ordine sia anche abitabile e piacevole, bisogna che il punto di vista sia quello di uno sguardo affettuoso, simpatico e creativo. Semplici, fresche e per niente scontate le illustrazioni di Gaia Stella. In ogni imagier che si rispetti, il piacere della vista deve essere pari a quello dell’udito.

QUANDO IL SOLE SI SVEGLIA
di Giovanna Zoboli e Philip Giordano

Giovanna Zoboli e Philip Giordano, Quando il sole si sveglia, Topipittori 2015

In Quando il sole si sveglia il filo conduttore è il tempo. Le cose che si svegliano e agiscono durante il giorno – nella prima parte del libro, riposano e si addormentano durante la notte, nella seconda parte. Al ritmo degli astri che sorgono e tramontano in modo figurato e animista (il sole e la luna aprono e chiudono gli occhi, la casa dorme…), un gallo prima canta, poi tace, una mosca ronza, poi si ferma, un fiore si apre, poi si chiude. In questa semplicità binaria e apparente si aprono piccole crepe misteriose: un gatto, invece di dormire, sale sui tetti a contemplare la notte; un pesce si nasconde; un bambino sorride.

Giovanna Zoboli e Philip Giordano, Quando il sole si sveglia, Topipittori 2015

Giovanna Zoboli e Philip Giordano, Quando il sole si sveglia, Topipittori 2015

Le stesse illustrazioni di Philip Giordano hanno qualcosa di enigmatico: la tensione tra spazio vuoto e forma degli oggetti dà una sensazione leggermente inquietante, e rimanda a qualcosa di sorgivo, essenziale. Un imagier, se ci pensiamo, è l’alba del mondo umano.
Nell’ultima doppia pagina, le due pagine sono riempite da un unico grande cielo notturno dove vediamo un bambino, costellazioni e giocattoli. Astri e oggetti terrestri si sono mescolati in un mondo terzo e parallelo: quello del bambino che sogna. È un Big Bang? È la fine del libro o l’inizio?

EL ARBOL DE LAS COSAS
di María José Ferrada e Miguel Pang Ly

El arbol de las cosas (L’albero delle cose) non è esattamente un imagier, è una storia che racconta di un albero che invece di produrre fiori e frutti, fa fiorire ‘cose’.
Sublime, in questo libro poetico e delicatissimo, il rapporto tra testo e immagine. Le illustrazioni di Pang, per la loro forma ambigua, sono come ideogrammi. Perfette per stare a galla tra linguaggio e figura.


 María José Ferrada e Miguel Pang Ly, El arbol de las cosas, A buen paso 2015

Maria, la protagonista del libro, entra in un giardino quando è bambina e lo ama. Ama soprattutto un albero diverso dagli altri, l’albero delle cose.
Nel giardino, infatti, ci sono alberi normali che fanno fiori e frutti normali, e c’è un albero che produce ‘cose’: nuvole, pesci, stelle…
È tutto molto bello ma c’è un problema. A primavera i fiori degli altri alberi si trasformano in frutti; sull’albero delle cose, le cose spariscono nel nulla.

“Dónde van esos peces, esas estrellas, y esas nubes pequeñas y esponjosas como corazó de naranja? Hay un camino desde el  árbol  de las cosas hasta el cielo? Hay un camino secreto desde su ramas al mar?”
(Dove vanno questi pesci, queste stelle e queste piccole nubi spugnose come cuori di arancia? C’è un cammino dall’albero delle cose che porta fino al cielo? C’è un cammino segreto dai suoi rami al mare?)

María José Ferrada e Miguel Pang Ly, El arbol de las cosas, A buen paso 2015

Maria invecchia, sempre chiedendosi dove vanno le cose dell’albero delle cose, cercandole; si addormenta su un’amaca legata all’albero. Il testo non dice mai che lei invecchia, sono le immagini che la mostrano crescere e invecchiare – cosa inusuale in un album. Capiamo che anche lei è sparita perché alla fine del libro non la vediamo più, vediamo entrare nel giardino nuovi bambini.

María José Ferrada e Miguel Pang Ly, El arbol de las cosas, A buen paso 2015

Maria finisce per accettare serenamente di non sapere dove vanno le cose dell’albero delle cose, forse è per questo non-sapere che a primavera, prima che le cose scompaiano, è così bello guardare l’albero?
L’albero delle cose è un albero, recita la frase finale del libro, ma è anche un mistero. Una metafora delicata come note di Satie.

Difficile terminare questo post senza citare questo verso delle Elegie Duinesi di R.M. Rilke:

…Forse noi siamo qui per dire: casa,
ponte, fontana, porta, brocca, albero da frutti, finestra,
al più: colonna, torre… Ma per dire, comprendilo bene
oh, per dirle le cose così, che a quel modo, esse stesse, nell’intimo,
mai intendevano d’essere…


Gaia Stella, Toutes choses avec lesquelles…, Hélium 2015

 

Toutes les choses avec lesquelles…
Gaia Stella
Un Imagier di oggetti domestici e affettuosi
14,90
Quando il sole si sveglia
Giovanna Zoboli e Philip Giordano
Un Imagier al ritmo del sole
13,60
El arbol de las cosas
Maria Jose Ferrada e Miguel Pang Ly
Una poetica metafora della vita umana
22,81

L’alfabeto delle piccole cose, di Federica Pagnucco e Linda Wolfsgruber

L’alfabeto delle piccole cose è un libro realizzato da Federica Pagnucco e Linda Wolfsgruber con l’uso di caratteri in legno e piombo: una antica tecnica simile, per suggestivi effetti , alla xilografia. Successivamente, con l’animazione di Thomas Renoldner e la colonna sonora di Peter Rosmanith, dal libro è stato tratto un poetico, minimalista, cortometraggio di animazione. Buona visione!
Su questo sito trovate più informazioni.


Tanti consigli sulla creatività e sul mestiere di illustratore da Jimmy Liao

Centinaia di pagine di consigli ai giovani illustratori e meravigliose immagini.
Ho scoperto per caso in una libreria questa bellissima raccolta di pensieri, parole e immagini di Jimmy Liao, il grande illustratore taiwanese: No hace mucho tiempo.
Illustrazioni in bianco e nero che Liao ha realizzato durante alcuni anni per l’inserto di un giornale, raccolte per la prima volta in un volume, inframezzate dal racconto affascinante di come Liao è diventato illustratore. Si impara che essere creativi è un duro mestiere, pieno di incertezze e passi falsi, onestà e passione. È un testo così zeppo di ottimi consigli per il lavoro di illustratori che varrebbe la pena studiare lo spagnolo solo per leggerlo.
Speriamo che qualche editore lo pubblichi in italiano. Vi ho tradotto qualche passaggio.

Jimmy Liao, No hace mucho tiempo, Barbara Fiore Editora 2014

“Come si impara a illustrare? Non vale per tutti, ma io iniziai facendo incisioni. Disegnavo a tastoni, nel senso che le mie illustrazioni non rispondevano a nessun criterio: mi guidava unicamente quello che mi rendeva felice. Ma non si può passare molto tempo disegnando solo per divertirsi: io volevo avanzare, crescere, e per questo iniziai a studiare come un matto.
In quell’epoca non esisteva ancora Internet, l’unico modo per studiare illustrazione era andare in una libreria e sfogliare tutti i libri illustrati e le riviste possibili. Non trascurare di studiare il lavoro di nessun illustratore, e metti a confronto i libri che ti piacciono: studiali a fondo, copia sui tuoi quaderni lo stile, chiedendoti: Perché questo tratto è così forte? Perché i colori mi affascinano? Perché questa idea è così acuta? Perché la composizione risulta equilibrata? Perché il tema è appassionante? E la prospettiva così originale? E la pennellata magica? E la testura speciale? Cosa permette alle emozioni di trasparire? Dove è il punto di fuga della prospettiva? Perché la composizione è così strana? Perché mi commuove questa illustrazione?” Jimmy Liao, No hace mucho tiempo, Barbara Fiore Editora 2014

Jimmy Liao, No hace mucho tiempo, Barbara Fiore Editora 2014

“Non voglio che l’immagine si limiti ad accompagnare il testo, quello che cerco, è di captare un’idea del testo e ricrearla nell’immagine. Così, allontanandosi da una trascrizione letterale, si apre uno spazio per la propria espressione. (…) ” Jimmy Liao,  No hace mucho tiempo, Barbara Fiore Editora.

“Creare è qualcosa di meraviglioso. Poco a poco, mi rendevo conto che avrei voluto riconoscere me stesso nei miei lavori. Perché disegno così? Perché voglio raccontare proprio questa storia? Perché interpreto in questo modo questo tema?
Normalmente sono una persona caotica, volubile, sconsiderata, che rifugge i problemi, impaziente e irascibile. Ma al momento di creare sono sereno, rigoroso, disciplinato, coraggioso e infinitamente paziente. Ho due facce: le mie migliori qualità corrispondono al mio lato di creatore.

Jimmy Liao, No hace mucho tiempo, Barbara Fiore Editora 2014

Un giovane artista, una volta, mi ha domandato come era nato il mio stile. Non ci avevo mai pensato; mi ero rassegnato a pensare di non aver uno stile mio. Quando lavoro, penso solo a come fare un disegno che mi piaccia completamente, disegnando come meglio posso.
A volte, senza rendermi conto, finisco per fare disegni che mi ricordano i disegni di qualcun altro: mi scuso rivendicando che si tratta di un omaggio. In ogni caso, se sei tenace, se rispetti le scadenze e sei capace di valutare con sincerità la tua opera, è certo che prima o dopo arriverai ad avere un tuo stile. Anche se, che una opera abbia uno stile proprio, non significa che sia buona.
La creazione artistica è come un fiume che attraversa molti luoghi. A voltre è trasparente, a volte torbido. A volte è turbolento, a volte placido. A volte sinuoso, a volte retto. A volte abbondante, a volte secco.
Attraversando paesaggi stupendi e paesaggi orribili. Con un tempo splendido e sotto un temporale atroce… Qualsiasi curva può portarti, a un tratto, davanti a un paesaggio insolito e sorprendente. L’importante è che il fiume della creazione continui a crescere, che cresca in abbondanza e bellezza perché possa svelare, alla fine, un paesaggio affascinante.”
Jimmy Liao, No hace mucho tiempo, Barbara Fiore Editora.

Potete acquistare il libro su Amazon.ES, qui.


Analisi di ‘Une chanson pour l’oiseau’ di Remy Charlip. Parte 3/ultima

Terza e ultima parte dell’analisi di ‘The dead bird” di Margaret Wise Brown e Remy Charlip, 1958 – riedito da Didier Jeunesse nel 2013 con il titolo Une chanson pour l’oiseau.
di Anna Castagnoli


Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, (dettaglio)

Ogni elemento di un album, dalla costa fino alla scelta dei caratteri, concorre alla narrazione.
Il formato di Une chanson pour l’oiseau di Remy Charlip è piccolo, rettangolare: ha la misura esatta di una scatolina in cui si potrebbe mettere a dormire un uccellino.
La storia dell’amorevole sepoltura di un uccellino morto da parte di un gruppo di bambini non sarebbe stata la stessa in un grande formato. Il lettore, leggendo il libro, ha in mano lo stesso peso che tengono i bambini quando portano l’uccellino: una manciata di grammi.

Un altro elemento che potrebbe apparire secondario – e scopriremo essere il più significante – è l’impaginazione.
Charlip ha deciso di separare in modo netto le immagini dal testo.
Le illustrazioni sono sempre a doppia pagina, senza nessun testo; il testo è sempre su una doppia pagina bianca, senza immagini.
Ho spiegato nel post precedente che Charlip ha separato drasticamente le parole dalle immagini per rallentare il tempo e rendere i bambini ancora più rigidi, ma vedremo adesso che la ragione di questa scelta è ancora più intrigante.


la firma di Van Eyck e la firma di Van Gogh

È sempre stato un grosso rompicapo, per artisti e illustratori, capire come giustapporre le parole scritte e le immagini.
Le parole, in quanto segni simbolici, galleggiano sulla superficie. Esse non vengono messe in prospettiva e non vengono ombreggiate.
Per questa ragione, il testo scritto minaccia sempre di smascherare il trompe l’oeil attraverso il quale il pittore/illustratore ci fa credere che su una superficie piatta ci sia profondità di campo.
Questa qui sotto è la pubblicità (trovata per caso su internet) di un negozio di cornici: il logo ‘Marciano Arte’ lo dobbiamo pensare lontano come le nuvole? Allo stesso livello del castello diroccato sulla destra?
Vediamo bene come il testo scritto vive e respira in una dimensione grafica completamente estranea alla scena rappresentata.


Avendo chiara questa differenza, preparatevi ad assistere a un salto tra parole e immagini tra i più geniali della storia dell’illustrazione.
Per apprezzarlo fino in fondo, è bene che oltre alla differenza grafica, ci fermiamo un attimo a riflettere sulla differenza che separa a livello semantico le parole dalle immagini. Non è grande. È un lampo.

In Une chanson pour l’oiseau è il testo – una voce narrante dolce e materna – che si incarica di descrivere le emozioni dei bambini e i loro atti (nelle immagini tutto è abbastanza congelato, rigido e primitivo).
I bambini, per liberarsi dall’incantagione ipnotica della morte, al pari della voce narrante, dovranno riportare l’esperienza vissuta nei recinti del linguaggio. Addomesticarla con le parole.
Se riguardiamo l’immagine dell’uccellino morto nella prima tavola, siamo colti dal lampo di un mondo extra-linguistico, ma questo lampo dura poco: anche se non venissimo accompagnati dalla voce che sta per iniziare a narrare, riporteremmo in breve tempo l’immagine verso il linguaggio, diremmo: Un uccellino è morto (soggetto, predicato). Citando Foucault:

“Senza questa analisi delle parole, le figure sarebbero restate mute, istantanee, e, scorte nell’incandescenza dell’istante, non avrebbero tardato a cadere in una notte ove nemmeno il tempo esiste.” Michel Foucault, Le parole e le cose, 1967.

Non c’è senso, per noi uomini, fuori dal linguaggio.

Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, dettaglio),  1958 – Didier 2013

A un certo punto della storia, la voce narrante dice che i bambini hanno cantato una canzone per l’uccellino. È la prima svolta narrativa.
La voce narrante cede il posto alla voce dei bambini. Essi, cantando, si sono impadroniti della parola.
La canzone che leggiamo nella doppia pagina bianca (in corsivo) è diventata la voce dei bambini.
Leggendo le parole, semplici come parole di bambini, ci sembra di ascoltare la loro voce commossa.

« Petit oiseau tu es mort / Tu ne voleras plus jamais / Tout là-haut / Avec les oiseaux dans le ciel / Nous chantons pour toi / Parce que tu es mort / Bel oiseau de plumes / Et nous t’avons enterré / Dans la terre /Avec des fougères et des fleurs /Parce que tu ne voleras plus jamais / Tout là haut dans le ciel / Petit oiseau mort ».

(Uccellino, tu sei morto, non volerai mai più lassù, con gli uccelli nel cielo. Noi cantiamo per te, perché sei morto, bell’uccello di piume. E noi ti abbiamo sepolto nella terra tra le felci e tra i fiori, perché non volerai più lassù nel cielo, uccellino che sei morto).


Anche l’immagine che segue rappresenta una svolta narrativa, questa volta su un piano figurativo. La cinepresa, che fino ad ora aveva ripreso le scene stando fissa a terra (un’inquadratura ravvicinata piuttosto claustrofobica) si è staccata dal suolo. È salita oltre le cime degli alberi e riprende un gruppo di uccelli in volo.

Che tempo storico ha questa immagine rispetto alle altre? È un flashback? Ritrae l’uccellino quando ancora volava insieme ai suoi amici? È contemporanea ai bambini che guardano in alto oltre alle cime degli alberi? O è un’immagine mitica? L’immagine del volo di tutti gli uccelli quando sono vivi? Gli uccelli disegnati sono silhouette, ombre leggere. Lisci come parole scritte.
A differenza delle precedenti, è un’immagine inscritta nel tempo, in un tempo dolorosamente umano. È un’immagine uscita dal canto commosso dei bambini, impastata di parole e lacrime. Sono gli uccellini che i bambini vedono volare – e non importa se nel ricordo, nel pensiero o nella realtà – dopo aver preso consapevolezza del tempo e della morte.
È un’immagine lirica.

Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, 1958 – Didier 2013


La storia continua. I bambini fasciano l’uccellino in una foglia di vite e lo seppelliscono con cura.
Lo ricoprono di terra e sulla terra mettono fiori (giunchiglie, viole e gerani) e una pietra.
Il testo, dopo aver descritto la sepoltura dell’uccellino nella pagina di destra, termina così: “Sulla pietra, hanno scritto:

Termina proprio così, con due punti sospesi nel nulla. Bisogna girare pagina per leggere cosa hanno scritto i bambini.
Girando pagina, troviamo questa immagine.
“Qui riposa un uccello che è morto”, recita la frase incisa sulla pietra.

Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau,  1958 – Didier 2013


La parola scritta ha fatto un salto ontologico: galleggiava sulle pagine bianche come un simbolo astratto e ora è diventata immagine essa stessa. È diventata ‘cosa’.
È così reale, ora, che nella tavola successiva la vediamo messa in prospettiva.


Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, (dettaglio),  1958 – Didier 2013

In questo salto, in questa metamorfosi, si nasconde l’ingranaggio segreto del libro, il suo senso più profondo. Le immagini iniziali, rigide come frammenti senza tempo, si sono a poco a poco lasciate addolcire dal linguaggio. Sono diventate immagini-parola. Immagini liriche perché umane.

Nell’ultima tavola, intravediamo la tomba nel bosco, dietro a un albero. I bambini sono ritratti più lontani, la scena è movimentata e ricca di dettagli. Una bella crescita da quella prima immagine dove avevamo incontrato, in un paesaggio senza tempo, l’uccellino morto.

Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, 1958 – Didier 2013

 

Nel 1802 il filologo Georg Friedrich Grotefend decifrò la scrittura cuneiforme, una delle scritture millenarie più inaccessibili e impenetrabili, grazie a un’intuizione di una semplicità commovente: quei segni incisi sulle lastre tombali dovevano recitare più o meno le stesse cose che recitano oggi: qui riposa in pace…
Dall’abisso del tempo, attraverso i segni impenetrabili di una scrittura, saliva una voce umana.

FINE

Rileggi LA PRIMA PARTE dell’analisi
Rileggi LA SECONDA PARTE dell’analisi


Consigli di lettura per approfondire i temi di questo post:
Le parole e le cose: Un’archeologia delle scienze umane, Michel Foucault
La miniatura medievale. Una introduzione, Otto Pacht

Une chanson pour l’oiseau
Margaret Wise Brown e Remy Charlip
Seppellire un uccellino e parlare della morte
11,90

Analisi di ‘Une chanson pour l’oiseau’ di Remy Charlip. Parte 2/3

Seconda parte dell’analisi di ‘’The dead bird” di Margaret Wise Brown e Remy Charlip 1958 – riedito da Didier Jeunesse nel 2013: Une chanson pour l’oiseau.
di Anna Castagnoli

Rileggi LA PRIMA PARTE dell’analisi.


Margaret Wise Brown e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, (dettaglio)

Nel post precedente abbiamo visto come i bambini, nel libro, sono ritratti in pose ieratiche e rigide. Essi ‘toccano’ la morte per la prima volta. La potenza atemporale della morte, il suo peso rigido e scultoreo, che minaccia la fluidità della vita, si  è come impadronita di loro. Essi avanzano in mezzo a tutta questa rigidità armati di coraggio: vogliono seppellire l’uccellino morto, vogliono prendersene cura, vogliono fare come fanno gli adulti quando qualcuno muore.
(Diventare grandi non è esattamente questo? Presa consapevolezza dell’ineluttabilità della morte, continuare a muoversi e prendersi cura delle cose, con coraggio?).

“Ils feraient une cérémonie et chanteraient, comme font les adultes quand quelqu’un meurt”
(Avrebbero fatto una cerimonia e avrebbero cantato, come fanno gli adulti quando qualcuno muore).

Recita la terza pagina del testo.

Nel libro di Charlip, pagine illustrate e pagine con testo sono rigidamente separate e si alternano.
È impossibile capirlo qui su internet, ma mentre si legge il libro la doppia pagina bianca è così bianca, così violentemente opposta ai colori delle scene illustrate, da dare la sensazione di un flash luminoso. Questo flash di luce fa lo stesso effetto di quando la luce di una discoteca si accende e si spegne a intervalli regolari e velocissimi, dando l’illusione che i corpi che danzano non siano più in movimento ma immobili, posa dopo posa.
(Scusate l’orribile accostamento, è un effetto che si usa anche nel teatro contemporaneo, ma credo ci sia più familiare quello della discoteca).


Margaret Wise Brown e Remy Charlip, The dead bird, edizione del 1958 (nell’ordine di questa sequenza mancano due pagine).

Obietterete voi: ma le immagini in un libro sono ‘sempre’ immobili posa dopo posa! (e pagina dopo pagina).
Certo, ma un illustratore farà di tutto per farvi dimenticare questa rigidità, userà tutti i mezzi grafici e espressivi che conosce per darvi una sensazione di vita e movimento dentro la scena.
Remy Charlip – che oltre a essere illustratore era ballerino e regista teatrale (aveva anche fondato una compagnia di teatro per bambini) –  era perfettamente consapevole che giustapponendo le pagine bianche a quelle illustrate avrebbe ottenuto una maggiore rigidità nelle scene.
La rigidità nel libro è tre volte presente: nel testo che dice che l’uccellino poco dopo la morte si è irrigidito, nelle pose scultoree dei bambini e nell’effetto che creano le pagine bianche alternate a quelle illustrate.
(Ricordate che il bianco, in molte tradizioni, è anche il colore del lutto).

Chiunque abbia assistito, sufficientemente coinvolto nel dolore, al rito di un funerale, sa tutto di questa improvvisa rigidità del tempo. Come se il tempo andasse a scatti, come se lo si dovesse spingere perché vada avanti.
Segue. Leggi la terza parte…

Rileggi LA PRIMA PARTE di questa analisi.


Analisi di ‘Une chanson pour l’oiseau’ di Remy Charlip. Parte1/3

Margaret Wise Brawn e Remy Charlip, Une chanson pour l’oiseau, Didier Jeunesse 2013

Une chanson pour l’oiseau, (titolo originale del 1958: The dead bird) è una breve storia scritta nel 1938 da Margaret Wise Brown – una delle più grandi scrittrici per l’infanzia del secolo scorso – per una raccolta di testi brevi, e illustrata postuma nel 1958 (l’autrice è mancata nel 1952) da Remy Charlip.
Il libro è stato riedito nel 2013 nella collana di libri vintage
Cligne Cligne (Didier Jeunesse), curata da Loïc Boyer; Loïc ha curato anche la traduzione e la grafia del testo (scritto a mano come nell’originale).
Dall’incontro di due artisti del calibro della Brown e di Charlip non poteva che nascere uno dei più bei libri illustrati di tutti i tempi.
Leggendo il libro per la prima volta non sono riuscita a trattenere le lacrime.


La storia è molto semplice e bella, racconta di alcuni bambini che trovano un uccellino morto, lo seppelliscono, inventano una canzone per lui, gli fanno un funerale, si commuovono, curano la tomba per un po’ di tempo portando fiori e foglie, poi si dimenticano dell’uccellino e ritornano a giocare.
Sublime in questo libro, oltre alla liricità del testo, è il ritmo tra testo e immagini. La sincope che ad ogni doppia pagina voltata trattiene e rilascia il tempo. Un libro sulla morte, in fondo, non poteva essere che un libro sul tempo.

Apriamolo. Nella prima doppia pagina, quella dove la storia fa la sua comparsa (un luogo dove la tensione scenica è altissima, come nell’istante che segue l’aprirsi di un sipario teatrale), non troviamo quasi nulla. Non un testo, non un paesaggio, non nuvole.
Su un orizzonte piano e monotono vediamo un uccellino morto.

La prima doppia pagina di un libro illustrato, generalmente, accoglie la presentazione del personaggio. E la parte destra della doppia pagina, in particolare, è quella dove ogni elemento rappresentato è più vivo e pronto all’azione perché più vicino al margine destro del libro, che è il margine che confina con il tempo che prosegue nella pagina successiva.


Mettere, nella pagina più trionfale del libro e nel luogo della massima dinamicità narrativa, un esserino morto, crea un controsenso, uno schianto dell’energia dinamica della storia che incomincia sull’inerzia di quel piccolo uccello delicato. La morte non è questo? Questo schianto, questo controsenso?
Aprendo il libro si resta ipnotizzati.
Capiamo da subito che la morte è protagonista assoluta del libro: con la sua essenzialità scultorea e la sua capacità di ridurre a un vuoto pulsante quello che le sta intorno.
Voltiamo la pagina. Ci accolgono due pagine altrettanto vuote, bianchissime. È un vuoto anche questo, ma di un registro diverso da quello precedente: siamo nello spazio della parola scritta, lo spazio della rappresentazione simbolica del mondo.


Nello stesso luogo dove era poco fa l’uccellino, alcuni caratteri incerti come impronte di passero sulla neve recitano:

“L’uccello era morto quando i bambini l’hanno trovato”.

L’imperfetto “era” crea una frattura con lo scenario atemporale che abbiamo contemplato nella pagina precedente. Mi spiego meglio: l’uccellino morto, quando lo guardiamo nella prima doppia pagina, è qui e adesso (qualsiasi immagine che vediamo è contemporanea al tempo del nostro sguardo: non possiamo vedere se non adesso).
Il testo, invece, ci dice che l’uccellino e la sua morte sono altrove: in un tempo già passato.
Ci dice anche qualcos’altro: ci dice che non siamo noi (noi lettori) ad aver trovato l’uccellino, ma che sono altri bambini ad averlo trovato.
La storia ci separa, ci stacca, dall’ipnotico qui e ora della morte. Ci permette una rielaborazione.

Se l’immagine della prima pagina aveva il tempo verbale declinato al presente: ‘un uccello è morto’ (ammesso che si possa parlare di tempo verbale per un’immagine), nella seconda pagina una dichiarazione scritta (non è questo il potere della scrittura?) strappa la morte alla sua eternità immobile e la riporta nel tempo umano: quello di una storia raccontata. L’uccello era morto quando i bambini l’hanno trovato. Il tempo della vita coincide, così, con il tempo retorico della fiaba. “Era una volta”.

Quando apriamo la terza doppia pagina, la scena è improvvisamente animata dai bambini che hanno trovato l’uccellino. È l’incontro dei bambini con l’uccellino morto, l’incontro dei bambini con il fatto che si muore.
I loro gesti sospesi – fotografati da Charlip nel momento della loro massima espressività retorica – così come la netta separazione dei bambini in due gruppi – il primo gruppo composto di due testimoni che discutono del fatto, il secondo gruppo più vicino all’uccellino, sia fisicamente che emotivamente – tutto ricorda una deposizione quattrocentesca.
Colpisce anche che nel libro sia sempre la bambina (il femminile?), unica protagonista femminile del gruppo, la sola a toccare l’uccellino.
Non mi occuperò oltre di questo parallelo tra le immagini di Charlip e la tradizione pittorica del quattrocento, mi basta portare la vostra attenzione sul ‘momento’ in cui Charlip ha ritratto i movimenti dei bambini: sospesi a metà di un’azione. Un modo atipico di ritrarre dei bambini in movimento. Rigido e ieratico.

Beato Angelico, deposizione, 1436
Beato Angelico, deposizione, 1437/40 c.; Remy Charlip The dead bird, 1958

Il testo della doppia pagina che segue (sempre bianca, senza immagini) è più lungo, dice che non era passato molto tempo da quando l’uccellino era morto (è il testo che continua a darci informazioni sul tempo che scorre). Il corpicino dell’uccello era ancora tiepido quando i bambini l’hanno trovato. I bambini hanno sfiorato il suo petto per sentire il battito rapido del cuore, ma non c’era battito.

“È così che i bambini hanno saputo che era morto. “

Bellissima l’immagine della bambina che sente il cuore dell’uccellino e la tensione dei bambini intorno a lei.
Il testo prosegue con la descrizione anatomica, realistica, delle fasi di irrigidimento del corpo dell’uccellino. La prima relazione che i bambini instaurano con la morte è scientifica. Il corpo è prima tiepido, poi freddo, le ali e le zampine dell’uccellino sempre più rigide, il cuore non batte più. La vita che lascia il corpo è prima di tutto un fatto tattile. La vita è, prima di essere simbolo e metafora, temperatura corporea, morbidezza, movimento.

In questo post abbiamo visto come Charlip ha saputo trasferire la rigidità della morte nei gesti dei bambini; vedremo con quale raffinato stratagemma narrativo abbia saputo tradurre la rigidità anche nel ritmo del libro.
Ricordate che un gesto ha sempre un inizio, un movimento, una fine; un illustratore può scegliere in che momento fotografare la parabola: questa scelta porta a una maggiore o minore naturalezza dei gesti, una maggiore o minore ‘retoricità’ narrativa.

Anna Castagnoli

Segue. Leggi la seconda parte…

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