Il plagio, parte III: il copyleft

30 Ottobre, 2009

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IL PLAGIO NELL’EPOCA DELLA GLOBALIZZAZIONE: il copyleft

Viviamo in un’epoca in cui, con buona probabilità, un abitante di New York stamattina ha indossato la stessa maglietta Zara che ho indosso io, si è svegliato tra le rose dello stesso copriletto IKEA che io considero “il mio preferito” e che è anche il preferito di Karen, ragazzina svedese di 20 anni appena sbarcata a Londra per studiare. Dove le strade delle più belle città europee stanno diventando a poco a poco tutte uguali, con McDonald’s sempre all’angolo. Dove milioni di lettori inseguono nello stesso istante aquiloni che volano, piangono in coro per  bambini con pigiami a righe, e vanno all’unisono dove li porta il cuore, cioè nel magazzino delle emozioni all’ingrosso, quelle capaci, per il tempo di un fiammifero, di scaldare l’attimo presente (come nella fiaba della piccola fiammiferaia, morta comunque stecchita di freddo). Pullulano prontuari d’istruzione d’uso per vivere, dove al prezzo di 12 euro e con un semplice: tu sei OK! (da ripetersi davanti allo specchio tre volte ogni mattina) ti puoi risparmiare 100 anni di psicanalisi e tremila di filosofia (a che saranno serviti poi?).

pecore

La globalizzazione, oltre che omologare, guadagna. Mai come in quest’epoca la cultura è diventata un fenomeno di massa. Internet e televisione complici, la cultura sta diventando un ghiotto introito economico, che sottosta alle stesse leggi del mercato di qualsiasi altro oggetto, dopobarba o automobile che sia. Lobby museali e gallerie si coalizzano per lanciare mostre d’arte come se fossero concerti pop, vedi il caso di Picasso et les maîtres mostra parigina dell’anno scorso che ha registrato il “tutto prenotato” con mesi d’anticipo, anche in fasce d’orario notturne (l’ultimo giorno di mostra era rimasto un posto libero alle 3 e trenta del mattino!): i quadri esposti in mostra  erano tutti quadri normalmente visitabili, senza coda, in pieno giorno, al Louvre o al Prado o al Museo Picasso di Parigi. Fenomeni.

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Picasso et les maîtres, Parigi 2009

La globalizzazione, oltre che omologare e guadagnare, ci cambia. Il senso dell’identità di un ragazzino di 15 anni oggi, il suo senso del tempo, dello spazio personale, della privacy, sono anni luce diversi da quelli che hanno fatto della nostra adolescenza (io sono del ’71) un lungo noiosissimo silenzio intervallato solo da rari amici e buoni libri. Tutto è: urgente, impaziente, onnivoro, già visto, entusiasta, già vecchio dopo un’ora, ripetuto, citato, copiato, ispirato, assimilato, visto, linkato, letto di sfuggita, letto male ma citato lo stesso, bloggato, bannato, “vuoi diventare mio amico?”,”mi piace”, “non mi piace più”.
Internet veicola immagini, brani musicali, testi e pensieri, e li clona a una velocità stellare. Che senso ha in questo panorama parlare ancora di plagio? Eppure…

copyleft

Il simbolo di Copyleft

Nel bailamme di questa rivoluzione culturale nasce un nuovo modo di concepire il diritto d’autore: il copyleft.
Il copyleft è una nuova forma di diffusione dell’opera e delle idee che si prefigge di abolire certi ostacoli dati dal copyright, per una diffusione più veloce e libera della cultura. Caso esemplare Creative Commons, un sito che propone gratuitamente licenze attraverso le quali è possibile mettere a disposizione degli altri i prodotti delle proprie idee (in modo parziale o totale), permettendo che vengano presi, ri-elaborati, copiati, usati, etc…  con solo poche limitazioni.
Due delle più comuni limitazioni presenti in queste licenze:

  • che le opere derivate restino tutelate dalla stessa forma giuridica originale (la licenza di CC), cioè che restino libere.
  • – che l’autore e l’opera originale possano essere rintracciabili (cioè che la fonte venga citata).

Per citare due casi precursori di copyleft non possiamo non ricordare Marie Curie e la sua scelta di non brevettare il processo di isolamento del radio, al fine di favorire il progresso veloce della ricerca scientifica, o Albert Bruce Sabin, che nel 1953, scoperto il vaccino della poliomelite, decise di non brevettarlo e di non affidarlo allo sfruttamento commerciale delle grandi case farmaceutiche, cosa che permise un’economica e velocissima diffusione del vaccino, e la scomparsa della poliomelite.

Tanti insistevano che brevettassi il vaccino, ma non ho voluto. È il mio regalo a tutti i bambini del mondo” Albert Bruce Sabin

MARIE_CURIEMarie Curie e il suo caso di copyleft

Il copyleft artistico, questo nuovo modo di concepire la creatività, che sembra figlio di quest’epoca, non fa che sancire e codificare una libertà che è sempre esistita. L’artista non ha sempre dato in regalo al mondo la sua opera? L’arte non è sempre stata un patrimonio comune, frutto di un lavoro collettivo di rimandi e rielaborazioni? Che senso ha l’idea di copyleft?
Per capire questo paradosso riassumiamo alcuni passaggi chiave della storia del plagio:

  • -> l’arte è un patrimonio comune.
  • -> L’autore (l’artista) è qualcuno che opera una personale (grossa o piccola) rielaborazione di questo patrimonio comune (lo chiamerò per comodità rielaboratore).
  • -> Il plagiario è qualcuno che non apporta nessuna modificazione personale ma si appropria dei vantaggi del lavoro di un altro rielaboratore.
  • -> Il copyright nasce per difendere dal plagio e dal furto la comunità (quindi per garantire la libertà dell’arte e dei suoi rielaboratori)
  • -> Nell’epoca della globalizzazione il copyright smette di difendere l’originalità del rielaboratore ma viene a servire le grandi catene industriali dell’arte (case discografiche, marchi, forme del design, etc) diventando una sorta di cane da guardia con troppi denti.
  • -> Nasce allora il copyleft per difendere l’arte dal copyright.

Sembra un paradosso! ma non lo è. Il copyleft non inficia infatti l’idea di plagio. Se una casa discografica lanciasse un cantante che ha preso un brano musicale tutelato dalla licenza CC, omettendo che il brano era sotto questa licenza e prendendosene meriti e guadagni, sarebbe plagio. Se Pincopallo facesse un libro illustrato copiando delle immagini sotto licenza CC senza più citarne la fonte o senza indicarne la licenza stessa, sarebbe plagio. Etc.

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Il logo di Creative Commons sulle Rocky Mountains in Colorado, USA. Foto presa dall’album di Jeffrey Beall

Allora a cosa serve il copyleft se tutto resta come prima? Il copyleft sembra nascere per denunciare un plagio tutto contemporaneo, cioè quello di un’arte “mercificata”, resa schiava da troppi interessi economici (il plagio, ricordiamone ancora l’etimologia, è vendita fraudolenta di un uomo libero come schiavo). Parlo qui di arte ma pensate a tutti i settori in cui il copyright diventa un cane da guardia assassino (i marchi farmaceutici ad esempio, dove il “generico” ha in questo caso il valore di una sorta di copyleft farmaceutico).
Di fronte allo spettro delle grandi lobby e delle multinazionali  che a poco a poco stanno fagocitando l’arte e il pensiero, trasformandoli in un prodotto di grande consumo (di qualità sempre più bassa), sembra rinvigorirsi il sentimento di un’arte che deve essere e restare libero patrimonio comune. Il reato del plagio non cambia, anzi, si fa peggiore.

Se in epoca classica (dove gli interessi economici non erano così globalizzati e ingenti) il plagio non comportava una condanna sociale troppo grave, oggi il plagio è doppiamente biasimevole perché incoraggia un movimento contrario alla difesa dell’arte come patrimonio comune. Il plagiatore fa dell’arte la stessa cosa che fanno le multinazionali e le lobby: la trasforma in merce per un suo interesse (spesso) biecamente economico.

Per riassumere: l’arte resta un patrimonio comune libero e prezioso a patto che:
– resti un patrimonio comune
– venga riconosciuta l’originalità inestimabile (e/o la paternità) del passaggio di elaborazione che l’individuo (o un gruppo di individui) opera su questo patrimonio comune.

Mi sembra restare immutato e attuale il pensiero di Marziale sul plagio:

(…)
e, qualora colui se ne proclami padrone,
tu dì che sono miei, e da me fatti liberti.
Se quello insiste una terza, una quarta volta a gridarlo,
svergognalo, allora, questo plagiario.

Niente di nuovo sotto il sole avrebbe detto il Qoelet?
Anche se ho peccato di grossolane semplificazioni, mi sembrava importante tracciare alcune linee storiche per definire i confini del plagio. Ora finalmente posso addentrarmi in quella stretta  lingua di terra che sta tra ispirazione e plagio, che è poi quella che ci interessa. Valentina Baldisserotto, avvocato esperto in diritto d’autore, ci preparerà anche un post sugli aspetti giuridici del plagio.


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8 Risposte per “Il plagio, parte III: il copyleft”

  1. 1 Miguel
    31 Ottobre, 2009 at 12:07

    Che bel pezzo Anna!.

    Mi è piaciuto tantissimo la contestualizzazione del plagio nella era globale . Hai ragione , è molto importante questa parte.

    C’è un articolo molto irriverente sul plagio che aveva scritto Puño (http://punio.blogspot.com/) sulla rivista CLIJ il mese scorso. Vale la pena cercarla.

    C’è una domanda che volevo farti, secondo te è lo stesso la “ispirazione” da un artista di adesso che la “ispirazione” da un artista da 50 anni fa’?

    un caro abbraccio

  2. 2 Anna Castagnoli
    31 Ottobre, 2009 at 15:29

    Grazie Miguel!

    “è lo stesso la “ispirazione” da un artista di adesso che la “ispirazione” da un artista da 50 anni fa?”

    Rifletto sulla tua domanda per il prossimo post, è interessante. Secondo me no, non è la stessa cosa.

  3. 3 Anonimo
    31 Ottobre, 2009 at 15:33

    bisognerebbe chiederlo a un artista che creava 50 anni fa, quindi avrebbe circa 70 anni ora.. però non sarebbe obiettivo perchè l’età cambia il modo di sentire le cose… e noi come potremmo dirlo?.. difficile analisi

  4. 4 papepi
    31 Ottobre, 2009 at 15:35

    sono io l’anonimo sopra.. complimenti anche da me per l’articolo!

  5. 5 Francesca Ferri
    4 Novembre, 2009 at 18:45

    Sono d’accordo con Miguel: mi è piaciuta questa riflessione sui rapporti tra il copyright e l’economia contemporanea. Vorrei approfondire la questione del copyright e del diritto d’autore.
    Da una parte stanno quelli che tu chiami “rielaboratori”: in genere sono identità minuscole ma, data la diffusione della cultura in genere qui speficificatamente delle arti, il numero dei “rielaboratori” è molto alto rispetto a 40 – 50 anni fa. Dall’altra parte c’è un’industria , che non si può quasi più chiamare tale, perchè di fatto in occidente non produce più nulla che si possa toccare, ma vive vendendo merci, prodotti, e nel nostro caso specifico, libri che possiedono un valore aggiunto che si chiama “sogno” o “immaginario”. Per creare un prodotto che abbia questo valore aggiunto l’industria ha bisogno del lavoro dei rielaboratori, che hanno tanta passione e tanta voglia di creare. Il gioco dell’industria anche editoriale è quello di valutare al minimo il valore del diritto d’autore nella fase creativa e progettuale per poi guadagnare sul copyrght , spesso vendendo e rivendendo solo format e idee pagate pochissimo. Se date un’occhiata a questo blog americano , curato da illustratori http://ipaorphanworks.blogspot.com/ potete apprendere che anche internet , se usato con eccesso di zelo come mezzo di comunicazione e diffusione del proprio lavoro potrebbe rivelarsi un trabocchetto: da 5 anni google cerca di appropriarsi dei diritti d’autore di milioni di immagini caricate sul web chiamate “orfane” cioè di cui non si ha notizia dell’autore.
    Un plagio legale…

    Per ciò che riguarda plagio e ispirazione : Picasso avrebbe mai dipinto le sue madamigelle se non avesse visto le maschere africane?

  6. 6 luisa
    5 Novembre, 2009 at 22:32

    A nessuno di voi nel lavoro quotidiano con gli editori è capitato che vi chiedano di colorare con la loro gamma cromatica, che il disegno abbia o non abbia un profilo nero a china, che le illustrazioni si adeguino alle altre mani che illustreranno il libro?
    Insomma se ci pensate anche questo rientra in parte nella catergoria dell’imitare.
    Ma è approvata anzi addirittura richiesta, e nessuno di voi ha mai accettato un lavoro così?
    Con canoni a cui attenersi che snaturano magari la visione dell’illustrazione o dello “stile” che avete?
    Avete avuto solo esperienze idilliache?

  7. 7 Anna Castagnoli
    6 Novembre, 2009 at 7:48

    Esperienze idilliache no, perché ho avuto editori che non hanno pagato (come la Hablò). Però rispetto allo stile no, non mi è mai successa una cosa come quella di cui parli, né l’ho mai sentita.
    Un editore ti cerca o ti prende per il tuo stile, poi magari si lavora insieme per migliorare quello.

  8. […] Castagnoli invece ha ben pensato ad una trilogia (Plagio 1, Plagio 2, Plagio 3), qui riproposta. Come sempre esaustiva e ricca di spunti su cui riflettere, consiglio di leggere […]